Sostiene l’attrice Michela Andreozzi che la sua opera prima da regista, Nove lune e mezza (nei cinema d’Italia), è il figlio che non ha mai avuto.
E mai voluto.
«Ho sempre rivendicato la sacrosanta libertà delle donne di sentirsi beneamate anche se non madri. Che una femmina senza figli non è femmina a metà. Ora anche io posso dire di avere partorito non solo una torta, una casa, uno spettacolo teatrale, ma anche un film».
Ed è maschio o femmina?
«Sempre come uno ogni scarrafone, bello a mamma soja. Però lo definirei “oltre-gender, ma con la gonna”».
La storia che racconta è quella di due sorelle. Una, lei, desidera un bambino che non riesce ad avere. L’altra è la childfree Claudia Gerini che si offre di portare in grembo la gravidanza al suo posto. Si prende il ruolo di quella con l’istinto materno: perché?
«Non mettersi nei panni dell’altro, non sperimentare come non si sa ci si possa sentire, è sempre un’occasione persa».
C’è pure Giorgio Pasotti, nel ruolo del compagno di colei che sceglie di prestare il proprio utero.
«Quando gli ho chiesto “Avrei bisogno di un San Giuseppe 2.0”, lui mi ha risposto: “E che problema c’è?. Sono stato a lungo legato a una donna che aveva già figli da una precedente relazione (Nicoletta Romanoff, ndr)”. È pieno ormai il mondo di uomini che si mettono con una versione così emancipata delle proprie madri da non assomigliare loro più».
In che cosa siamo cambiate di più?
«In quanto siamo sincere con noi stesse. Le madri, per esempio. Un tempo non si sarebbero mai dette stressate. Ora cominciano. Anche ad ammettere che poi è diverso da come se lo aspettavano. Oppure le quarantenni, fiere e felici di non volere diventarlo, madri. Anche quando questo significa assumersi il rischio ancora quasi di un coming-out».
Ci racconti dei suoi, di coming-out.
«C’è una forma di razzismo, una violenza delle donne sulle donne per cui sembra che tu se non sei madre non possa mai capire, che la maternità sia l’unica chiave per interpretare l’esistenza nel modo giusto, per vivere una vita piena di senso. Anche sul lavoro: se non vuoi figli sei inaffidabile ma produci meglio, se ce li hai sei affidabile ma produci peggio, quindi in un modo o nell’altro l’unica soluzione è essere una frustrata».
Nel film affronta il tema della sorellanza.
«Un valore poco attraversato dalla narrativa, dal cinema. Dopo l’Amica Geniale e Frozen, mi piaceva l’idea di dare il mio contributo al racconto di una “cordata di donne che si sostiene”: è alle basi della società moderna».
È davvero per la “donazione” dell’utero?
«Se in un’offerta libera, certo. Rientra nel mio territorio di comprensione. C’è chi dona il midollo spinale, il sangue nelle trasfusioni, ci sono fratelli nati solo per curare il maggiore venuto al mondo con un’anomalia genetica, il premio Nobel per la Letteratura Kazuo Ishiguro non l’ha forse preso anche per Non lasciarmi, che è una storia di clonazione? Perché un rene non crea problemi e un utero in affitto sì? Dà ugualmente all’altro la felicità che gli manca».
Lei lo farebbe?
«Per il tipo di rapporto che ho con il mio corpo, non credo riuscirei. Ma per fortuna esistono ragazze con un coefficiente di generosità più alto».
La maternità surrogata apre tutto un discorso sul mercato degli uteri in affitto.
«Ma io – da fan di Tom Hanks – nel film sono rimasta nel lato luminoso della vicenda. Appena entra in gioco il denaro, è di commercio delle proprie ovaie e del proprio ventre, che parliamo, non di accordo personale tra individui per libera scelta».
Nel dizionario dell’odierno buon senso, che definizione ha la parola «famiglia», secondo lei?
«Dove ci si ama e sostiene. Dove si torna. Viceversa, dove ciò non accade, non lo è. Indipendentemente da legami di sangue. Massimiliano (Vado, suo compagno, ndr), è oggi il mio nucleo. Anche senza prosecuzione della specie».
Nel film gli dà la parte del gay e padre.
«Non volevo delle macchiette. E così, insieme a Stefano Fresi, ho creato due omoni maschi innamorati con figli, come ce ne sono tanti. A mio marito ho dato da fare il mammo, l’uomo dei due che lavorando meno scalpita, soffre, patisce. Ma poi fa rientrare tutto ricevendo un mazzo di fiori. Dice che per questo ruolo si è ispirato ai miei scleri».
Vi siete uniti civilmente il 21 maggio 2015, nel Celebration day, sola coppia etero tra molte dello stesso sesso.
«E siamo gli unici per cui quelle nozze non valgono proprio in quanto etero. Ci dobbiamo risposare. Ho incontrato la Cirinnà, relatrice della legge sulle unioni civili, e le ho detto: “Monica, ma possibile ‘sta discriminazione?”. Per il Comune di Roma siamo tutelati come coppia, ma per Firenze, Milano e il resto d’Italia e dell’estero invece no. Allora ci è venuta un’idea».
Prego.
«Collezionare il più alto numero di matrimoni. Un tour per dirci sì in ogni posto in cui non l’abbiamo fatto ancora. Chiusura a Las Vegas».
Matrimonio che per lei è…
«Intimità in tutti i sensi. E vale con uno, con due già è la sua negazione».
La maternità?
«È cura e accudimento. Occuparsi prima di preoccuparsi».
Le adozioni.
«Avendo per soggetto principe il bambino, le renderei più fluide e accessibili a single, coppie gay, a chiunque abbia da condividere un’esistenza dignitosa. Quasi qualunque luogo è meglio di un orfanotrofio».
L’utero in affitto.
«Un tempo ci si trovava nelle campagne, e i figli passavano di mano in mano, si affidavano. Una la gravidanza vera la teneva nascosta, l’altra diceva di averlo partorito in casa. Andava così. Solo, gli cambierei nome. Parlerei di “Una pancia per due”, come quei titoli da rassicurante commedia americana di Natale».
Che effetto ha fatto a un’attrice come lei leggere delle molestie del Caso Wenstein?
«Nausea assoluta per l’abuso di potere, per la violenza di genere nel ricatto del maschile sul femminile: “Posso darti qualcosa – la parte – che da sola non puoi ottenere, ma che se mi dai qualcosa che voglio allora avrai” . E grandissima tenerezza nei confronti di queste donne, nel fatto che abbiamo avuto bisogno di una cordata per esprimerci, di spalleggiarci per difenderci».
C’è stato anche il coro del «perché confessare proprio ora, dopo avere ottenuto quel successo “sporco”»?
«Nei referti e nelle carte che seguono alle violenze carnali, spesso c’è scritto che le vittime non sono “riuscite a urlare”, che per lo choc non gli usciva “la voce dalla gola”. Se fossi stata violentata, potrei esprimermi a riguardo. L’alternativa è solo la compassione».
Fonte https://www.vanityfair.it/people/italia/2017/10/14/michela-andreozzi-nove-lune-e-mezza-film-utero-in-affitto-maternita-surrogata-gossip-foto-max-vado
E mai voluto.
«Ho sempre rivendicato la sacrosanta libertà delle donne di sentirsi beneamate anche se non madri. Che una femmina senza figli non è femmina a metà. Ora anche io posso dire di avere partorito non solo una torta, una casa, uno spettacolo teatrale, ma anche un film».
Ed è maschio o femmina?
«Sempre come uno ogni scarrafone, bello a mamma soja. Però lo definirei “oltre-gender, ma con la gonna”».
La storia che racconta è quella di due sorelle. Una, lei, desidera un bambino che non riesce ad avere. L’altra è la childfree Claudia Gerini che si offre di portare in grembo la gravidanza al suo posto. Si prende il ruolo di quella con l’istinto materno: perché?
«Non mettersi nei panni dell’altro, non sperimentare come non si sa ci si possa sentire, è sempre un’occasione persa».
C’è pure Giorgio Pasotti, nel ruolo del compagno di colei che sceglie di prestare il proprio utero.
«Quando gli ho chiesto “Avrei bisogno di un San Giuseppe 2.0”, lui mi ha risposto: “E che problema c’è?. Sono stato a lungo legato a una donna che aveva già figli da una precedente relazione (Nicoletta Romanoff, ndr)”. È pieno ormai il mondo di uomini che si mettono con una versione così emancipata delle proprie madri da non assomigliare loro più».
In che cosa siamo cambiate di più?
«In quanto siamo sincere con noi stesse. Le madri, per esempio. Un tempo non si sarebbero mai dette stressate. Ora cominciano. Anche ad ammettere che poi è diverso da come se lo aspettavano. Oppure le quarantenni, fiere e felici di non volere diventarlo, madri. Anche quando questo significa assumersi il rischio ancora quasi di un coming-out».
Ci racconti dei suoi, di coming-out.
«C’è una forma di razzismo, una violenza delle donne sulle donne per cui sembra che tu se non sei madre non possa mai capire, che la maternità sia l’unica chiave per interpretare l’esistenza nel modo giusto, per vivere una vita piena di senso. Anche sul lavoro: se non vuoi figli sei inaffidabile ma produci meglio, se ce li hai sei affidabile ma produci peggio, quindi in un modo o nell’altro l’unica soluzione è essere una frustrata».
Nel film affronta il tema della sorellanza.
«Un valore poco attraversato dalla narrativa, dal cinema. Dopo l’Amica Geniale e Frozen, mi piaceva l’idea di dare il mio contributo al racconto di una “cordata di donne che si sostiene”: è alle basi della società moderna».
È davvero per la “donazione” dell’utero?
«Se in un’offerta libera, certo. Rientra nel mio territorio di comprensione. C’è chi dona il midollo spinale, il sangue nelle trasfusioni, ci sono fratelli nati solo per curare il maggiore venuto al mondo con un’anomalia genetica, il premio Nobel per la Letteratura Kazuo Ishiguro non l’ha forse preso anche per Non lasciarmi, che è una storia di clonazione? Perché un rene non crea problemi e un utero in affitto sì? Dà ugualmente all’altro la felicità che gli manca».
Lei lo farebbe?
«Per il tipo di rapporto che ho con il mio corpo, non credo riuscirei. Ma per fortuna esistono ragazze con un coefficiente di generosità più alto».
La maternità surrogata apre tutto un discorso sul mercato degli uteri in affitto.
«Ma io – da fan di Tom Hanks – nel film sono rimasta nel lato luminoso della vicenda. Appena entra in gioco il denaro, è di commercio delle proprie ovaie e del proprio ventre, che parliamo, non di accordo personale tra individui per libera scelta».
Nel dizionario dell’odierno buon senso, che definizione ha la parola «famiglia», secondo lei?
«Dove ci si ama e sostiene. Dove si torna. Viceversa, dove ciò non accade, non lo è. Indipendentemente da legami di sangue. Massimiliano (Vado, suo compagno, ndr), è oggi il mio nucleo. Anche senza prosecuzione della specie».
Nel film gli dà la parte del gay e padre.
«Non volevo delle macchiette. E così, insieme a Stefano Fresi, ho creato due omoni maschi innamorati con figli, come ce ne sono tanti. A mio marito ho dato da fare il mammo, l’uomo dei due che lavorando meno scalpita, soffre, patisce. Ma poi fa rientrare tutto ricevendo un mazzo di fiori. Dice che per questo ruolo si è ispirato ai miei scleri».
Vi siete uniti civilmente il 21 maggio 2015, nel Celebration day, sola coppia etero tra molte dello stesso sesso.
«E siamo gli unici per cui quelle nozze non valgono proprio in quanto etero. Ci dobbiamo risposare. Ho incontrato la Cirinnà, relatrice della legge sulle unioni civili, e le ho detto: “Monica, ma possibile ‘sta discriminazione?”. Per il Comune di Roma siamo tutelati come coppia, ma per Firenze, Milano e il resto d’Italia e dell’estero invece no. Allora ci è venuta un’idea».
Prego.
«Collezionare il più alto numero di matrimoni. Un tour per dirci sì in ogni posto in cui non l’abbiamo fatto ancora. Chiusura a Las Vegas».
Matrimonio che per lei è…
«Intimità in tutti i sensi. E vale con uno, con due già è la sua negazione».
La maternità?
«È cura e accudimento. Occuparsi prima di preoccuparsi».
Le adozioni.
«Avendo per soggetto principe il bambino, le renderei più fluide e accessibili a single, coppie gay, a chiunque abbia da condividere un’esistenza dignitosa. Quasi qualunque luogo è meglio di un orfanotrofio».
L’utero in affitto.
«Un tempo ci si trovava nelle campagne, e i figli passavano di mano in mano, si affidavano. Una la gravidanza vera la teneva nascosta, l’altra diceva di averlo partorito in casa. Andava così. Solo, gli cambierei nome. Parlerei di “Una pancia per due”, come quei titoli da rassicurante commedia americana di Natale».
Che effetto ha fatto a un’attrice come lei leggere delle molestie del Caso Wenstein?
«Nausea assoluta per l’abuso di potere, per la violenza di genere nel ricatto del maschile sul femminile: “Posso darti qualcosa – la parte – che da sola non puoi ottenere, ma che se mi dai qualcosa che voglio allora avrai” . E grandissima tenerezza nei confronti di queste donne, nel fatto che abbiamo avuto bisogno di una cordata per esprimerci, di spalleggiarci per difenderci».
C’è stato anche il coro del «perché confessare proprio ora, dopo avere ottenuto quel successo “sporco”»?
«Nei referti e nelle carte che seguono alle violenze carnali, spesso c’è scritto che le vittime non sono “riuscite a urlare”, che per lo choc non gli usciva “la voce dalla gola”. Se fossi stata violentata, potrei esprimermi a riguardo. L’alternativa è solo la compassione».
Fonte https://www.vanityfair.it/people/italia/2017/10/14/michela-andreozzi-nove-lune-e-mezza-film-utero-in-affitto-maternita-surrogata-gossip-foto-max-vado
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