Negli ultimi anni se si parla di parto e nascita, si finisce per ridursi a discutere sull’alternativa con dolore o senza dolore, e tema centrale diviene quindi l’epidurale.
Discussione ancora più accesa negli ultimi mesi, dopo che il Ministro della Salute ha dichiarato di voler inserire nei LEA (livelli essenziali di assistenza) l’analgesia epidurale in travaglio di parto con la seguente affermazione: «Ritengo assurdo che al giorno d’oggi la nascita di un bambino debba essere accompagnata dal dolore».
Quello che sembra mancare (soprattutto nella comunicazione dei mass media) è una visione più ampia sulle modalità con cui si gestiscono e si affrontano il parto e la nascita oggi in Italia (ma più in generale nel mondo occidentale) e sugli effetti che queste modalità possono avere sulla donna, sulla coppia e sull’essere genitori, e cioè su tutta la società.
E invece un tema così complesso come quello del nascere, così ricco di implicazioni psicologiche, sociali, emotive, in cui la storia personale di ogni donna si somma e si confronta con la realtà culturale e il momento storico in cui vive, che non si può banalmente ridurre al problema dolore, all’alternativa epidurale sì-epidurale no, prescindendo dai tanti altri aspetti che non sono collaterali, ma elementi importanti nella genesi del dolore stesso: l’ambiente in cui il parto avviene, il personale che assiste, le modalità tecnico-assistenziali, la presenza o meno del partner e di figure di sostegno, la preparazione nel corso della gravidanza.
Il parto: una tappa lungo la strada
Intenso, e talvolta estremo, il travaglio e il parto non sono che un brevissimo momento in un percorso molto più lungo, che inizia con il desiderio di fare un figlio, prosegue con la gravidanza, il parto e il puerperio e termina nel momento in cui i neogenitori si sentono autonomi nella capacità di crescere ed educare il figlio. Non è possibile tutelare il parto separandolo da tutto il resto ed è a questo percorso nella sua interezza che è necessario dare risposte adeguate, potenziando gli interventi di supporto, garantendo servizi di accompagnamento, favorendo un’assistenza personalizzata, affinché possa trasformarsi in un occasione di crescita per la coppia, rendendola quindi più forte e più capace di gestire in prima persona la nascita di un figlio, e il dolore che l’accompagna.
È necessario riscoprire che fare figli è un qualcosa che attiene soprattutto alla sfera culturale e solo in parte a quella medica. La medicina, indispensabile per evitare i rischi della gravidanza e del parto, ha avuto senza dubbio il merito di abbassare (fino quasi a portare a zero) la mortalità e la morbilità per la madre e il bambino, ma con un effetto collaterale: una sempre più invadente tecnicizzazione della nascita.
Oggi gli studi e le evidenze scientifiche ci avvertono che siamo andati molto oltre, raggiungendo un livello di tecnicizzazione che è non solo inutile, ma anche dannoso. Pensate all’aumento spropositato di tagli cesarei e dei parti operativi, col conseguente incremento dell’insoddisfazione delle donne, delle depressioni post-parto, delle difficoltà relazionali coi neonati, dei problemi nell’allattamento.
I rischi dell’epidurale
L’epidurale viene anche propagandata come uno strumento utile a rendere meno frequente il ricorso al parto cesareo. È invece vero il contrario: è ormai ampiamente dimostrato che il rischio di dover ricorrere a un parto operativo è maggiore quando si esegue l’epidurale.
Sappiamo inoltre che la tecnicizzazione delle modalità di assistenza al parto ha contribuito non poco ad accentuare il dolore, perciò é un’evidente contraddizione cercare di ridurre con nuova tecnologia quel dolore introdotto proprio dalla troppa tecnologia. Non sarebbe meglio, invece di anestetizzare, quasi volessimo far dimenticare le nostre inadeguatezze, lavorare sui nostri metodi di assistenza, spesso irrispettosi e insostenibili?
C’è una lunga serie di pratiche eseguite di routine e imposte alla donna, della cui utilità non esiste alcuna evidenza scientifica: le troppe, inutili, continue visite ostetriche, i tracciati cardiotocografici tenuti a oltranza, l’impossibilità di alzarsi dal letto, la posizione litotomica imposta, l’applicazione del catetere per vuotare una vescica, piuttosto che invitare semplicemente la donna ad andare in bagno; e ancora l’applicazione di una flebo, piuttosto che permettere alla donna di bere e alimentarsi.
Ci sono alternative?
Un’alternativa c’é. Invece di cancellare con un ulteriore atto medico il dolore del nascere di oggi, non sarebbe meglio cancellare quella quota di dolore indotto dalla nostra incapacità che, andandosi a sommare a quello fisiologico del travaglio, finisce per renderlo insostenibile?
Se si vuole difendere la possibilità della donna di scegliere, bisogna aver chiaro che non si tratta di scegliere fra dolore sì e dolore no, ma tra rimanere protagonisti di un evento, che comporta un dolore naturale, gestibile e sostenibile, o restare passivi e subire un dolore indotto, reso così insostenibile e devastante.
È proprio l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) che ci invita a potenziare e diffondere le modalità di assistenza alla gravidanza e al parto basate sul sostegno e l’accompagnamento, limitando il numero di operatori coinvolti e puntando invece sulla continuità assistenziale in tutte le situazioni fisiologiche, perché è dimostrato che così si garantisce la migliore tutela della salute.
La pancea di tutti i mali
E allora, invece che investire soldi e mezzi per “regalare” un pezzetto del percorso (l’epidurale) come se fosse la panacea di tutti i mali, la soluzione di tutti i problemi, sarebbe meglio investire queste risorse nel potenziare la tutela del percorso nascita nel suo complesso. Certo, l’impatto propagandistico sarebbe minore, ma il livello di consapevolezza di tutti (donne e operatori) sarebbe maggiore; e quindi alla fine migliore la tutela della salute.
Solo dopo aver approfondito i tanti aspetti correlati alla nascita (la scienza ci dice che è più sicuro un parto meno medicalizzato, gli psicologi ci ricordano che “lavorare” sulla persona determina effetti concreti sull’andamento e l’evoluzione del travaglio, i sociologi ci allertano che l’attuale dissociazione dai riti fondamentali come la nascita e la morte provoca fratture non facilmente rimarginabili, ecc.) si può tornare a parlare serenamente di analgesia in travaglio.
Serve l’epidurale?
La risposta probabilmente è sì, a volte. A volte è una buona soluzione per situazioni difficili, come a volte serve l’ossitocina, o il vacuum, o il cesareo: tutti ottimi strumenti a disposizione dell’ostetricia per quelle situazioni che non riescono a evolvere naturalmente.
Ben venga allora l’epidurale, ma non come risposta generalizzata, come prima scelta, senza aver prima percorso le altre strade, quelle maestre, che rendono la donna capace di prendere il carico della responsabilità della nascita del figlio, riuscendo ad affrontare l’impegno e la fatica da vera protagonista, accrescendo in definitiva la sua autostima: un bene prezioso per il difficile ruolo di genitore che l’attende.
Fonte https://www.uppa.it/nascere/gravidanza-e-parto/dolore-epidurale/
Discussione ancora più accesa negli ultimi mesi, dopo che il Ministro della Salute ha dichiarato di voler inserire nei LEA (livelli essenziali di assistenza) l’analgesia epidurale in travaglio di parto con la seguente affermazione: «Ritengo assurdo che al giorno d’oggi la nascita di un bambino debba essere accompagnata dal dolore».
Quello che sembra mancare (soprattutto nella comunicazione dei mass media) è una visione più ampia sulle modalità con cui si gestiscono e si affrontano il parto e la nascita oggi in Italia (ma più in generale nel mondo occidentale) e sugli effetti che queste modalità possono avere sulla donna, sulla coppia e sull’essere genitori, e cioè su tutta la società.
E invece un tema così complesso come quello del nascere, così ricco di implicazioni psicologiche, sociali, emotive, in cui la storia personale di ogni donna si somma e si confronta con la realtà culturale e il momento storico in cui vive, che non si può banalmente ridurre al problema dolore, all’alternativa epidurale sì-epidurale no, prescindendo dai tanti altri aspetti che non sono collaterali, ma elementi importanti nella genesi del dolore stesso: l’ambiente in cui il parto avviene, il personale che assiste, le modalità tecnico-assistenziali, la presenza o meno del partner e di figure di sostegno, la preparazione nel corso della gravidanza.
Il parto: una tappa lungo la strada
Intenso, e talvolta estremo, il travaglio e il parto non sono che un brevissimo momento in un percorso molto più lungo, che inizia con il desiderio di fare un figlio, prosegue con la gravidanza, il parto e il puerperio e termina nel momento in cui i neogenitori si sentono autonomi nella capacità di crescere ed educare il figlio. Non è possibile tutelare il parto separandolo da tutto il resto ed è a questo percorso nella sua interezza che è necessario dare risposte adeguate, potenziando gli interventi di supporto, garantendo servizi di accompagnamento, favorendo un’assistenza personalizzata, affinché possa trasformarsi in un occasione di crescita per la coppia, rendendola quindi più forte e più capace di gestire in prima persona la nascita di un figlio, e il dolore che l’accompagna.
È necessario riscoprire che fare figli è un qualcosa che attiene soprattutto alla sfera culturale e solo in parte a quella medica. La medicina, indispensabile per evitare i rischi della gravidanza e del parto, ha avuto senza dubbio il merito di abbassare (fino quasi a portare a zero) la mortalità e la morbilità per la madre e il bambino, ma con un effetto collaterale: una sempre più invadente tecnicizzazione della nascita.
Oggi gli studi e le evidenze scientifiche ci avvertono che siamo andati molto oltre, raggiungendo un livello di tecnicizzazione che è non solo inutile, ma anche dannoso. Pensate all’aumento spropositato di tagli cesarei e dei parti operativi, col conseguente incremento dell’insoddisfazione delle donne, delle depressioni post-parto, delle difficoltà relazionali coi neonati, dei problemi nell’allattamento.
I rischi dell’epidurale
L’epidurale viene anche propagandata come uno strumento utile a rendere meno frequente il ricorso al parto cesareo. È invece vero il contrario: è ormai ampiamente dimostrato che il rischio di dover ricorrere a un parto operativo è maggiore quando si esegue l’epidurale.
Sappiamo inoltre che la tecnicizzazione delle modalità di assistenza al parto ha contribuito non poco ad accentuare il dolore, perciò é un’evidente contraddizione cercare di ridurre con nuova tecnologia quel dolore introdotto proprio dalla troppa tecnologia. Non sarebbe meglio, invece di anestetizzare, quasi volessimo far dimenticare le nostre inadeguatezze, lavorare sui nostri metodi di assistenza, spesso irrispettosi e insostenibili?
C’è una lunga serie di pratiche eseguite di routine e imposte alla donna, della cui utilità non esiste alcuna evidenza scientifica: le troppe, inutili, continue visite ostetriche, i tracciati cardiotocografici tenuti a oltranza, l’impossibilità di alzarsi dal letto, la posizione litotomica imposta, l’applicazione del catetere per vuotare una vescica, piuttosto che invitare semplicemente la donna ad andare in bagno; e ancora l’applicazione di una flebo, piuttosto che permettere alla donna di bere e alimentarsi.
Ci sono alternative?
Un’alternativa c’é. Invece di cancellare con un ulteriore atto medico il dolore del nascere di oggi, non sarebbe meglio cancellare quella quota di dolore indotto dalla nostra incapacità che, andandosi a sommare a quello fisiologico del travaglio, finisce per renderlo insostenibile?
Se si vuole difendere la possibilità della donna di scegliere, bisogna aver chiaro che non si tratta di scegliere fra dolore sì e dolore no, ma tra rimanere protagonisti di un evento, che comporta un dolore naturale, gestibile e sostenibile, o restare passivi e subire un dolore indotto, reso così insostenibile e devastante.
È proprio l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) che ci invita a potenziare e diffondere le modalità di assistenza alla gravidanza e al parto basate sul sostegno e l’accompagnamento, limitando il numero di operatori coinvolti e puntando invece sulla continuità assistenziale in tutte le situazioni fisiologiche, perché è dimostrato che così si garantisce la migliore tutela della salute.
La pancea di tutti i mali
E allora, invece che investire soldi e mezzi per “regalare” un pezzetto del percorso (l’epidurale) come se fosse la panacea di tutti i mali, la soluzione di tutti i problemi, sarebbe meglio investire queste risorse nel potenziare la tutela del percorso nascita nel suo complesso. Certo, l’impatto propagandistico sarebbe minore, ma il livello di consapevolezza di tutti (donne e operatori) sarebbe maggiore; e quindi alla fine migliore la tutela della salute.
Solo dopo aver approfondito i tanti aspetti correlati alla nascita (la scienza ci dice che è più sicuro un parto meno medicalizzato, gli psicologi ci ricordano che “lavorare” sulla persona determina effetti concreti sull’andamento e l’evoluzione del travaglio, i sociologi ci allertano che l’attuale dissociazione dai riti fondamentali come la nascita e la morte provoca fratture non facilmente rimarginabili, ecc.) si può tornare a parlare serenamente di analgesia in travaglio.
Serve l’epidurale?
La risposta probabilmente è sì, a volte. A volte è una buona soluzione per situazioni difficili, come a volte serve l’ossitocina, o il vacuum, o il cesareo: tutti ottimi strumenti a disposizione dell’ostetricia per quelle situazioni che non riescono a evolvere naturalmente.
Ben venga allora l’epidurale, ma non come risposta generalizzata, come prima scelta, senza aver prima percorso le altre strade, quelle maestre, che rendono la donna capace di prendere il carico della responsabilità della nascita del figlio, riuscendo ad affrontare l’impegno e la fatica da vera protagonista, accrescendo in definitiva la sua autostima: un bene prezioso per il difficile ruolo di genitore che l’attende.
Fonte https://www.uppa.it/nascere/gravidanza-e-parto/dolore-epidurale/
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