giovedì 16 marzo 2017

La libertà dell'utero in affitto e della maternità surrogata

Ho pensato molto a come approcciare questo argomento. E, alla fine, ho deciso di entrarci da me. 
Perché è difficile stare fuori dalla questione quando si parla di maternità. La prima cosa che ho dovuto fare leggendo Mio tuo suo loro. Donne che partorisco per altri di Serena Marchi (Fandango), un viaggio tra le donne che decidono di essere madri surrogate («che brutta parola bisognerebbe trovarne altre», commenta l'autrice) è stato tornare a me stessa. Ricapitolarmi.

Prima di entrare nella querelle, ipotizzare quesiti, informarmi, cercare coordinate giuridiche nel fiorire di normative particolari e contraddittorie, mi sono interrogata. 
Mi sono chiesta perché 4 sillabe ma-dri/fi-gli sconquassano la società, la civiltà, la coscienza.
Cosa ci è successo? Fare figli è sempre meno naturale e sempre più un miracolo o una pratica scientifica? Quanto ci pesa addosso la visione cattolica? 
O anche - all'altro capo di un filo tirato sempre su assolutismi - siamo così abituati a ottenere quello che vogliamo che non sappiamo più rassegnarci a quello che la vita ci offre o non ci dà? 
Una volta alcuni avevano dei figli e altri no. Nel bene o nel male di questo ci si faceva una ragione. E adesso? Quando la volontà diventa ostinazione e accanimento? 
Abbiamo perso il senso del limite? Ma quali sono i limiti? Chi li decide? La coscienza, lo stato, la chiesa, la morale, la scienza, io per me? Ognuno per sé? Cos'è rimasto dell'etica? Stiamo spostando i paletti? Li abbiamo abbattuti?
Non ho risposte, non ho mai risposte, sono sempre stata più brava nelle domande. Ma in questo tema, in tutti i temi che ci toccano da vicino le domande sono fondamentali. E ora più che mai mi sembra non abbiamo più gli strumenti di decodifica. L’esegesi della realtà è più comoda preconfezionata in giudizi semplici come slogan. 
Mi chiedo spesso, me lo sono chiesta quando aspettavo mio figlio e continuo a chiedermelo ora davanti alle sue domande senza requie, cosa vuol dire essere genitori. Quanto quel legame carnale, viscerale, totalizzante che si crea da subito, dalla pancia o ancora prima dall’idea, influenzi poi la vita di un figlio. Quanto recidere quel legame carnale abbia conseguenze. Quando si diventa genitori.
Io madre lo sono diventata vedendomelo davanti. Quando in tutta la sua meraviglia e minuscolità urlante è diventato una persona fisica da toccare e ascoltare. Prima, questa simbiosi mi stava schiacciando. Scherzando ma mica tanto con le amiche dico che l'idea di essere incinta non mi sfiora nemmeno ma che se sulla porta di casa trovassi un cesto con dentro un bambino, novello Noè, lo porterei dentro. E adesso mi chiedo che madre sarei per quel bambino che non mi ha tirato calci nella pancia?
La maternità è un tema che sta molto a cuore a Serena Marchi, giornalista e scrittrice 35enne di Verona. Madri, comunque, il suo primo libro (uscito un paio di anni fa da Fandango) raccoglie 30 testimonianze di donne madri o non madri ognuno a loro modo, ognuno con il suo modo specifico, così diverso da stereotipi e assolutismi. Quando le chiedo cosa l'ha spinta a scriverlo, risponde: «Sono partita da me, dalla mia esperienza. Quando è nato mio figlio avevo 28 anni e sono piombata in un mondo in cui tutti sanno tutto e tutti ti dicono che madre devi essere, cosa devi fare o non fare. Sanno meglio di te quello che è giusto per lui, perché non deve dormire nella sua stanza, perché non deve andare al nido. Perché non dovresti lavorare a tempo pieno». In più, aggiunge: «ho notato che in Italia c’è un trinomio indissolubile: donna-madre-parto. Se manca uno di questi tre elementi ti guardano male».
E alla maternità, in questo caso surrogata, è tornata con Mio tuo suo loro. Per questa inchiesta sul campo Serena ha usato le ferie e si è portata in viaggio marito e figlio, Ettore (ora sette anni e mezzo). Ha fatto in un anno 33613 chilometri, nessuna domanda via skype, via mail o al telefono perché dice: «Volevo verificare di persona, mettendoci il naso e la faccia, se quello che stavano raccontando in rete era vero». È partita dall’Italia e poi si è spostata in Ucraina, Inghilterra, Canada e Stati Uniti per incontrare Regina, Jamie, Rachel, Holly… 13 donne che hanno scelto di diventare madri per altri.
Devo fare una premessa doverosa: so poco di utero in affitto. In Italia la maternità  surrogata non è consentita, e la legislazione nel resto del mondo è così complessa che sembra procedere a frattali inserendo casi, deroghe e eccezioni che rendono il quadro di complessità assordante. Mi perdo già con i primi distinguo, quelli tra maternità surrogata tradizionale o gestazionale. L'utero in affitto (altra orrenda espressione) è un business, un giro d'affari milardario sul corpo delle donne e in molti paesi a scapito delle donne. Sulla gestazione per altri negli animi il dibattito è violento. Tra i contrari ci sono molte femministe che considerano le madri in affitto le nuove schiave. Perché addentrarsi in questo universo? «Mi dava fastidio sentire dire che sono tutte schiave, tutte vittime. Trovavo insopportabile l’assoluto contenuto in quel tutte. Facendo così si generalizza e si banalizza. Tutti siamo contrari alla schiavitù, in questo come in altri campi, ma non è di questi casi che volevo parlare. A me interessava mostrare che questa realtà esiste e che non è tutto squallido come viene descritto».
In queste pagine ci sono racconti spiazzanti. C’è Regina che contro tutto quello che dice o pensa il paese prova a fare un figlio per sua figlia, che non ne può avere perché: «Chi se non io avrebbe dovuto aiutarla? Al giorno d’oggi si può decidere di donare un rene, un pezzo di fegato. L’utero no, è un organo che non si può donare sennò me lo sarei tolto e gliel’avrei dato senza pensarci un secondo». C’è Jamie che cresce sua figlia da sola e che di sé dice:«Ho deciso di voler essere una surrogata quando avevo 17 anni» e che con i due papà per cui ha partorito una figlia ha un rapporto quotidiano. C’è Julia che si racconta così: «Essere una surrogata è come essere un canguro. (…) Porto in pancia per un po’ di tempo un bambino che deve crescere. Come fa una mamma canguro. Poi chiaro, so perfettamente che il piccolo non è mio. Ha il dna della sua mamma e del suo papà».
C'è chi vuole aiutare coppie che non ci riescono, chi lo fa per amicizia, senso di responsabilità, affetto, denaro. E l'aspetto economico (diverso da paese a paese: in alcuni casi si parla di spese mediche, in altri c'è un compenso, in alcuni oltre alle spese mediche si sono degli indennizzi per i giorni di lavoro saltati in paesi che sulla maternità sono molto diversi dal nostro) pesa, diventa un'aggravante. Mi chiedo: il sentimento giustifica, lo scambio di denaro condanna? Di cosa parliamo dell'intenzione con cui viene fatta o della cosa che viene fatta? Forse ci sono talmente tanti distnguo che è impossibile farli stare tutti in una legge?
Questo viaggio non è stato facile né emotivamente né fisicamente, racconta Serena. «Mi sono ritrovata catapultata in una realtà, in culture e discorsi lontanissimi da me. Perché quando ti trovi a parlare di questi temi vai a toccare le viscere vai a toccare le tue origini, le tue radici, i tuoi ricordi di quello che sei». 
Cosa l’ha colpita? «Quanto si stupiscano che in Italia non venga percepito il fatto che siano loro a decidere, che se ne parli come di donne usate e sfruttate. E poi come non si leghino al bambino ma alla coppia, sono loro che scelgono i futuri genitori e spesso poi mantangono contatti, sono persone che entrano a far parte della famiglia. Mi ha stupito e commosso con quanta serenità e orgoglio parlano di quello che fanno e di quanto tranquillamente riescano a farlo. Parto da me, io non potrei mai partorire un figlio per altri. Quando aspettavo Ettore non ho voluto fare né amniocentesi né altri esami, perché quello era mio figlio e lo sarebbe stato comunque. Lo ripeto, non lo farei mai ma trovo legittimo e giusto che chi vuole possa farlo».
Cos'è che fa paura, che non riusciamo a capire? «Forse non riusciamo a credere o accettare che una donna possa scegliere e assumersene le responsabilità. Faccio davvero fatica, in questo come in mille altri temi, a capire perché sia così difficile accettare le decisioni degli altri. Forse perché sulla maternità da secoli i governi e gli stati fanno leggi sul corpo delle donne».

Mentre conversiamo ho una serie di domande che mi affollano la testa. Una su tutte è se non ci siamo dimenticati i figli. «Ah certo», risponde Serena. «Io volevo raccontare la scelta di queste donne. Anche nel mio primo libro non mi sono occupata di cosa pensassero o dicessero i figli. Il mio punto di domanda sono le donne. Credo però che non si pensi ai figli in tutti gli aspetti della maternità, non solo in questo. Non si pensa ai figli di una coppia che si mena o non va d’accordo… Ritengo che mettere al mondo un figlio si faccia al 90% per se stessi, è un grandissimo gesto di egoismo. Secondo me non lo fai per il figlio che viene al mondo ma lo fai per te come coppia sempre».
Mi fermo un attimo. Non so bene perché si facciano i figli. Credo che ognuno abbia le sue motivazioni. E che poi come tutte le cose che pensi, sogni e desideri in potenza, nel passaggio all'atto le cose siano molto diverse. Cerco di uscire da questo argomento e le chiedo cos'ha imparato da questo viaggio. «A non giudicare, mai. A metterci il naso perché le situazioni, le emozioni, le sfumature le comprendi solo così». E aggiunge: «una delle cose fondamentali è che ognuno ha una propria coscienza e a quella deve rispondere. Io non me la sarei mai sentita. Ma perché gli altri non possono decidere?».
Quando Ettore, suo figlio, a settembre è tornato a scuola ha raccontato alla maestra che era andato in viaggio con i suoi genitori perché la mamma «ha incontrato le donne che mettono al mondo figli per altri». L’ha raccontato con assoluta naturalezza, l'ha spiegato anche agli altri bambini e poi ha aggiunto che aveva fatto il bagno nell'oceano con gli squali. 
«Gli voglio trasmettere», dice Serena, «che non siamo il centro del mondo. Che fuori dai nostri paesi, stati e città ci sono paesi che vivono in un altro modo, un modo che magari non condividi ma rispetti».
Queste righe non hanno pretesa di esaustività o completezza. Ho intinto un dito nel mare. Ho capito cosa farei io ma non pretendo che valga per tutti. Ci sono ancora tante domande, che germinano come finestre pop up. Ma temo che non ci sia nessuno in grado di rispondere. Mi piacerebbe ottenere per una volta certezze apodittiche, verità indiscutibili. Essere deresponsabilizzata dalla scelta, dalla paura di sbagliare, dalla fatica di capire. Ma poi penso che no, in realtà non mi piacerebbe per niente. Perché cercare di capire è la cosa che ci rende umani.
Fonte http://www.marieclaire.it/Attualita/interviste/maternita-surrogata-libro-mio-tuo-suo-loro-di-Serena-Marchi

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