martedì 16 luglio 2019

LA PROCREAZIONE MEDICALMENTE ASSISTITA E IL DIRITTO DI DIVENTARE GENITORI

La procreazione medicalmente assistita e il diritto di diventare genitori         La procreazione medicalmente assistita, nota come p.m.a,  è una procedura medica di concepimento artificiale finalizzata a soddisfare il desiderio delle coppie sterili o infertili di avere figli.
         Tale desiderio esemplifica la scelta della coppia di diventare genitori e di formare  una famiglia caratterizzata dalla presenza di figli. Siffatta scelta è espressione della libertà di autodeterminazione delle parti, ed è riconducibile agli artt. 2, 3 e 31 Cost., in quanto afferente alla  sfera privata e familiare.[1]  Assume cosi  rilievo il conseguente “diritto alla generazione della prole”, diritto che seppur non esplicitamente previsto dalla Costituzione, trova il suo fondamento negli artt. 2 Cost. e 8 Cedu.
         Il ricorso alle tecniche di inseminazione favorisce la soluzione dei problemi riproduttivi derivanti dalla sterilità o dalla infertilità umana ed è mezzo di attuazione della scelta di una coppia di diventare genitori. Le prime procedure di inseminazione artificiale si ebbero in Inghilterra intorno alla metà del settecento. In Italia i primi esperimenti furono eseguiti alla fine del sec. XVIII dal  biologo  Lazzaro  Spallanzani . [2] Il  risultato più importante  si raggiunse nel 1978, in Inghilterra, con la nascita di Louise Brown, la prima bambina nata con la fecondazione in vitro, ad opera del ginecologo Steptoe e del biologo Edwards.Il percorso evolutivo delle tecniche di procreazione medicalmente assistita  è caratterizzato da una graduale ascesa documentata dal grande numero di bambini nati sino ad oggi nel mondo grazie alla sua applicazione. Si pensi che, nel 2000 il numero di centri operanti nel settore risulta molto alto: circa 200 in Italia, 380 negli Stati Uniti, 110 in          Inghilterra, 92 in Francia, 75 in Germania, 36 in Spagna, 12 in Olanda.[3]   Nell’anno 2016 la recente relazione del Ministero della Salute stima:
360 centri attivi: di cui 112 pubblici, 22 privati convenzionati, 226; i centri attivi con accesso di almeno una coppia sono stati 317;
522  coppie trattate; 13.582  bambini nati vivi, quindi il 2.9% del totale bambini nati nel 2016 (474.438 nati vivi, ISTAT)
La Lombardia con 60 centri, la Campania con 44, il Veneto con 38, la Sicilia con 37 ed il Lazio con 34 sono le regioni con una maggiore presenza di centri di fecondazione assistita, rappresentando insieme il 60,2% di tutti i centri autorizzati in Italia.[4]
         Riferimento normativo sul punto è la  L. n.40/2004, la quale ha ammesso la fecondazione omologa, ossia l’inseminazione artificiale che avviene utilizzando i gameti della coppia ed ha inizialmente vietato quella eterologa allorquando vengano impiegati  gameti estranei alla coppia. L’articolo d’apertura della legge enuclea la finalità e fissa il principio di  residualità della fecondazione, essa è consentita solo per ovviare alla infertilità o  sterilità qualora non vi siano altri metodi terapeutici efficaci.[5] Il ricorso a tale metodo di fecondazione è consentito alle  coppie maggiorenni di sesso diverso, coniugate o conviventi, in età potenzialmente fertile, entrambi viventi.[6] L’accesso alle tecniche di p.m.a è circoscritto ai casi di sterilità o di infertilità inspiegate e documentate da atto medico, nonché ai casi di sterilità o di infertilità da causa accertata e certificata da atto medico. Le tecniche di procreazione medicalmente assistita sono applicate in base al principio di gradualità, al fine di evitare il ricorso ad interventi aventi un grado di invasività tecnico e psicologico più gravoso per i destinatari, ispirandosi al principio della minore invasività.[7] In ogni fase della p.m.a il medico deve informare, in modo dettagliato, la coppia sui possibili effetti collaterali sanitari e psicologici conseguenti all’applicazione delle tecniche stesse, sulle probabilità di successo e sui rischi dalle stesse derivanti, nonché sulle relative conseguenze giuridiche per la donna, per l’uomo e per il nascituro. La volontà di entrambi i soggetti di accedere alle tecniche di procreazione medicalmente assistita è espressa per iscritto congiuntamente al medico responsabile della struttura, secondo modalità definite con decreto dei Ministri della giustizia e della salute, adottato ai sensi dell’articolo 17, comma 3, della legge 23 agosto 1988, n. 400, entro tre mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge. Tra la manifestazione della volontà e l’applicazione della tecnica deve intercorrere un termine non inferiore a sette giorni. La volontà può essere revocata da ciascuno dei soggetti interessati fino al momento della fecondazione dell’ovulo.[8] I nati a seguito della p.m.a acquistano lo stato di figli riconosciuti della coppia che ha espresso la volontà di ricorrere alle tecniche medesime. All’art. 9 la L. n.40/2004 pone il divieto per il coniuge o il convivente di esercitare l’azione di disconoscimento della paternità  qualora ricorra a tecniche di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo e preclude alla madre del nato a seguito dell’applicazione di tecniche di p.m.a  la possibilità di dichiarare la volontà di non essere nominata.[9] La legge  in questione è stata interessata da diverse pronunce della Corte Costituzionale.
         La prima declaratoria di illegittimità costituzionale risale al 2009. Al riguardo si ponga mente al fatto che al fine di evitare il fenomeno degli embrioni c.d. soprannumerari, id est formazione di embrioni  prodotti ma non impiantanti,  l’articolo 14, comma 2, della legge n. 40 del 2004, prima della pronuncia della Consulta, prevedeva un numero massimo di tre embrioni da formare e trasferire in utero successivamente con un unico e contemporaneo impianto. La Consulta[10] ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del citato comma 2 dell’art. 14, limitatamente alle parole “ad un unico e contemporaneo impianto, comunque non superiore a tre” e del comma 3 dello stesso articolo, laddove non prevede che il trasferimento degli embrioni, da realizzare non appena possibile, debba essere effettuato senza pregiudizio per la salute della donna.
Картинки по запросу LA PROCREAZIONE MEDICALMENTE ASSISTITA
         Successivamente la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 162 del 2014, ha dichiarato incostituzionale il divieto di  ricorrere a tecniche di procreazione medicalmente assistite di tipo eterologo per i casi in cui sia stata diagnosticata alla coppia una patologia che sia causa di sterilità  irreversibile. Tale divieto è stato considerato  lesivo: del diritto all’autodeterminazione delle coppie sterili e infertili – in relazione alle proprie scelte procreative e discriminatorio rispetto alle coppie che presentano un grado di sterilità e infertilità minore e che possono avere accesso alle tecniche di tipo omologo –   del diritto fondamentale alla salute e idoneo a generare un’ulteriore disparità di trattamento, di tipo economico, tra coppie sterili o infertili che dispongono di risorse finanziarie sufficienti per sottoporsi ai trattamenti all’estero e quelle che, viceversa, ne risultano sprovviste, si da porre fine al fenomeno del cosi detto turismo procreativo [11] A seguito della dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma è stato introdotta all’articolo 1, comma 298, della legge 23 dicembre 2014, n. 190, la previsione normativa sulla istituzione del Registro nazionale dei donatori di cellule riproduttive a scopi di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo, al fine di poter garantire la tracciabilità completa delle donazioni dal donatore al nato e viceversa. Ne consegue dunque che a cospetto di certe patologie che siano causa di sterilità è ammissibile il ricorso alle tecniche di inseminazione eterologa qualora esse abbiano colpito entrambi i componenti della coppia o solo uno di essi.
         L’ermeneusi della Consulta ha consentito di estendere la fecondazione alle coppie fertili  portatrici di gravi malattie genetiche trasmissibili individuate in base al criterio di gravità già stabilito dall’art. 6 comma 1 lett.b) della L. 194/1978. Per vero, con la sentenza n.96/2015[12] la Corte Costituzionale ha dichiarato l’incostituzionalità degli artt. 1,2 e 4 comma 1 della L. 40/2004 nella parte in cui pongono il divieto del ricorso alla p.m.a  alle coppie portatrici di malattie genetiche per violazione degli art.. 3e 32 Cost nonché l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 8 e 14  della CEDU. Il contrasto con l’art. 3 Cost.,  è spiegato nel senso che “comporta la conseguenza paradossale, irragionevole e incoerente di costringere queste coppie, desiderose di avere un figlio non affetto dalla patologia, di cui ben conoscono gli effetti, di avere una gravidanza naturale e ricorrere alla scelta tragica dell’aborto terapeutico del feto, consentita dalla legge 22 maggio 1978, n. 194”; inoltre il suddetto divieto determinerebbe una discriminazione tra la condizione delle coppie fertili, portatrici di malattie genetiche trasmissibili, e quella delle coppie in cui l’uomo risulti affetto da malattie virali contagiose per via sessuale, alle quali è, invece, riconosciuto, dal decreto del Ministero della Salute 11 aprile 2008 (Linee guida in materia di procreazione medicalmente assistita), il diritto di ricorrere alle tecniche di p.m.a. Il contrasto con l’art.32 Cost. è inteso nel senso che la donna nell’esercitare la scelta di procreare un figlio non affetto da una patologia trasmissibile ereditariamente, sarebbe costretta a dover affrontare una gravidanza naturale per poi dover, eventualmente, ricorrere ad un aborto terapeutico (nel caso di accertata trasmissione della malattia genetica), con la configurazione di un concreto aumento dei rischi per la sua salute fisica e per la sua integrità psichica. Il contrasto con l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione alle norme interposte di cui agli artt. 8 (sul diritto al rispetto della vita familiare) e 14 (sul divieto di discriminazione) della CEDU si spiega alla luce dell’“irragionevolezza” del divieto di accesso alla p.m.a. imposto alle coppie sterili portatrici di malattie ereditarie, “che di fatto si risolve nell’incoraggiamento del ricorso all’aborto del feto” e comporterebbe, dunque, una indebita ingerenza nella vita familiare di dette coppie. Secondo la   Consulta “sussiste, in primo luogo, un insuperabile aspetto di irragionevolezza dell’indiscriminato divieto, che le denunciate disposizioni oppongono, all’accesso alla p.m.a , con diagnosi preimpianto, da parte di coppie fertili affette (anche come portatrici sane) da gravi patologie genetiche ereditarie, suscettibili (secondo le evidenze scientifiche) di trasmettere al nascituro rilevanti anomalie o malformazioni. E ciò in quanto, il nostro ordinamento consente, comunque, a tali coppie di perseguire l’obiettivo di procreare un figlio non affetto dalla specifica patologia ereditaria di cui sono portatrici, attraverso la, innegabilmente più traumatica, modalità della interruzione volontaria (anche reiterata) di gravidanze naturali – quale consentita dall’art. 6, comma 1, lettera b), della legge 22 maggio 1978, n. 194 (Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza) − quando, dalle ormai normali indagini prenatali, siano, appunto accertati processi patologici […] relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna.”
         Con la sentenza n. 229/2015 la Corte Costituzionale si pronuncia sulla questione relativa alla selezione eugenetica degli embrioni e dichiara incostituzionale  l’art. 13, commi 3, lettera b), e 4, della legge n. 40 del 2004  laddove vieta, sanzionandola penalmente, la condotta selettiva del sanitario volta esclusivamente ad evitare il trasferimento nell’utero della donna di embrioni che, dalla diagnosi preimpianto, siano risultati affetti da malattie genetiche trasmissibili rispondenti ai criteri di gravità di cui all’art. 6, comma 1, lettera b), della legge n. 194 del 1978, accertate da apposite strutture pubbliche. Invero, l’art. 13 della legge  suddetta con tale divieto sanziona  “ogni forma di selezione a scopo eugenetico degli embrioni”, senza escludere, dalla fattispecie di reato così configurata, l’ipotesi in cui la condotta dei sanitari “sia finalizzata ad evitare l’impianto nell’utero della donna degli embrioni affetti da malattie genetiche” − contrastando così con gli artt. 3 e 32 della          Costituzione, per violazione del principio di ragionevolezza, e del diritto alla salute, tutelato dalla stessa “legge 40” anche nei confronti della coppia generatrice; e per violazione dell’ art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 8 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali come interpretato nella giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’Uomo, laddove ha affermato che il diritto al rispetto della vita privata e familiare include il desiderio della coppia di generare un figlio non affetto da malattia genetica.[13] Ancora, nel 2016 con la sentenza n.84 la Consulta ha dichiarato infondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate con riferimento al divieto di revoca del consenso all’impianto degli embrioni dopo la fecondazione dell’ovulo  di cui all’art. 6 comma 3 e il divieto di cui all’art. 13  di ricerca scientifica sugli embrioni se non finalizzata alla tutela dell’embrione stesso. Quanto alla prima questione, pare opportuno osservare che la Corte ha dichiarato la non rilevanza della questione per il caso di specie, evitando cosi di  pronunciarsi su una norma ampiamente dibattuta. Invero, l’art 6 comma 3 vieta la revoca del consenso all’inseminazione dopo la fecondazione dell’ovulo. In siffatta ipotesi,il medico dovrebbe procede all’impianto anche contro la volontà della donna circostanza che sarebbe in contrasto con art 32 cost . Tale contrasto è reso ancor più evidente dal fatto che la norma non dispone sanzioni in caso di inosservanza. Tuttavia, in caso di embrioni affetti da patologie genetiche trasmissibili il sanitario dovrà ibernarli  e non potrà impiantarli nell’utero della donna.  Con riferimento alla seconda questione, la Consulta ha chiarito che la scelta di ammettere la possibilità di donare gli embrioni soprannumerari alla ricerca è rimessa alla discrezionalità legislativa.
         A fronte di detta disamina, è agevole osservare come l’ermeneusi della Consulta ha stravolto la legge 40 riformulando i requisiti  per l’accesso alle tecniche di p.m.a, ammettendovi non solo le coppie sterili o infertili, ma anche quelle fertili affette da malattie genetiche che potrebbero generare naturalmente figli, alle coppie che colpite da gravi patologie genetiche necessitano della diagnosi preimpianto ad onta della necessità di evitare la inconsapevole trasmissibilità al figlio della malattia e anche alle coppie affette da sterilità assoluta (non in grado di produrre gameti) consentendo loro il ricorso alla p.m.a di tipo eterologo. Pare dunque profilarsi una tendenza legislativa e giurisprudenziale volta ad irrobustire il diritto alla genitorialità genetica attraverso la valorizzazione teleologica delle tecniche scientifiche di procreazione artificiale.

Fonte http://www.salvisjuribus.it/la-procreazione-medicalmente-assistita-e-il-diritto-di-diventare-genitori/

Nessun commento:

Posta un commento