giovedì 7 luglio 2016

Fecondazione assistita per tutti

        Desiderare fortemente un figlio e non riuscire ad averlo. Chiunque ci sia passato sa quanto è devastante questa condizione, soprattutto nei primi tempi successivi alla diagnosi: ci si sente divorati da rabbia, tristezza e un gran senso di ingiustizia. Perché proprio a me? è la domanda che martella incessantemente il cervello. In molti casi c’è almeno uno spiraglio: le tecniche di fecondazione assistita possono aiutare diverse coppie infertili a realizzare il loro sogno. Ma c’è un ma: queste tecniche costano, anche parecchio. E se già questo è un problema nei paesi ricchi, con sistemi sanitari che spesso si fanno carico almeno in parte delle spese, figuriamoci cosa può succedere in quelli poveri. “In Africa, solo il 2-3% della popolazione (qualcuno in più in Sudafrica) ha i mezzi per accedere a un ciclo di fecondazione in vitro, che costa all’incirca dai 5000 agli 8000 euro, come nelle cliniche private europee” spiega Willem Ombelet, ginecologo belga che da anni si occupa di infertilità nei paesi in via di sviluppo.
        Eppure, proprio in questi paesi il carico della mancanza di figli è ancora più grande, perché si tratta di fare i conti non solo con la disperazione psicologica, ma anche con l’esclusione familiare e sociale e la rovina economica. Ci si sposa e ci si aspetta che a breve arriveranno i bambini: se non arrivano, la vita può diventare un inferno. Soprattutto per le donne, che anche pagano il prezzo più alto della discriminazione.
        Il quadro che descrive Ombelet mette i brividi. “Alcune donne sono picchiate e messe da parte, mentre i mariti si danno da fare con altre donne per riuscire ad avere comunque un figlio. In questo modo, però, aumenta il rischio che portino a casa infezioni a trasmissione sessuale, AIDS compreso. Altre vengono abbandonate definitivamente, e spesso non possono trovare conforto neppure nella famiglia d’origine, che di fatto le allontana, escludendole dalla linea ereditaria. Senza marito e senza il sostegno della famiglia, se non hanno un lavoro sono condannate alla povertà estrema”. Anche nei casi in cui coppia e famiglie riescono a rimanere unite, i problemi comunque non svaniscono, perché è l’intera comunità ad accanirsi: se i figli vengono da Dio, come spesso si pensa in questi contesti, una donna che non riesce ad averne deve per forza aver fatto qualcosa di male. Così arrivano i soprannomi crudeli, l’esclusione dalla vita sociale, perfino le accuse di stregoneria. “In alcune zone del mondo, le donne senza figli perdono il diritto ad avere un nome, o quello di un posto al cimitero. Il marchio dell’infertilità le accompagna anche dopo la morte” racconta il ginecologo.
        Di fronte a tanta sofferenza, Ombelet si è posto due obiettivi precisi: promuovere consapevolezza internazionale su questo tema e sviluppare tecniche di fecondazione in vitro a basso costo, che possano essere diffuse anche nei paesi con meno risorse. Il suo strumento è The Walking Egg, fondazione no-profit nata con la collaborazione dell’artista belga Koen Vanmechelen, già da tempo interessato al tema della fertilità (suo è il Cosmopolitan Chicken Project che punta a creare un superibrido di tutte le varietà di polli esistenti al mondo). Vanmechelen ci ha messo anche il logo: un uovo con due zampette. “È un uovo in movimento, che non conosce confini e si sposta alla ricerca delle condizioni giuste per venire fecondato” spiega Ombelet. “Una metafora perfetta per un progetto che punta a garantire l’accesso universale alla cura dell’infertilità“. Vanmechelen ha prodotto walking eggs di vetro, con zampe di ferro, che sono già state esposte in vari musei del mondo, come ambasciatori del progetto. Potenza del rapporto, fecondo, tra arte e scienza.Cortesia Koen Vanmechelen
       Non tutti, in verità, guardano con favore all’idea. “Ci hanno detto che è da pazzi preoccuparci della fecondazione in vitro in paesi dove imperversano malattie come AIDS o malaria, e che hanno tassi elevati di mortalità infantile” ricorda Jonathan Van Blerkom, il biologo che ha messo a punto il metodo semplificato di fecondazione in vitro che è oggi il fulcro delle attività della fondazione, in un documentario dedicato alle prime esperienze in Ghana. “Ovviamente non stiamo pensando di portare la tecnica in zone di grandi emergenze umanitarie, per esempio di conflitto” precisa Ombelet. “Però è un dato di fatto che anche nei paesi in via di sviluppo c’è una classe media che vive in condizioni relativamente stabili, che sarebbe interessata a trattamenti per l’infertilità, ma che non può accedervi ai prezzi attuali. Perché non dare la possibilità anche a tutti questi uomini e donne di tentare la via della fecondazione assistita?”.
       Altri storcono il naso di fronte a un progetto sull’infertilità in paesi che, nel complesso, hanno il problema contrario, cioè tassi di fertilità altissimi. Per Ombelet, però, questi aspetti non sono in contrasto: “Sono sfaccettature diverse dello stesso tema, cioè la salute femminile e materna. Sicuramente ci sono molte cose da fare in questo ambito, come promuovere la pianificazione familiare nelle comunità in cui le donne hanno ancora un numero molto elevato di figli, garantire una migliore assistenza ostetrica per ridurre il rischio di mortalità materna, fetale e neonatale, investire sulla prevenzione dell’infertilità, che in questi paesi è dovuta soprattutto all’alta incidenza di malattie a trasmissione sessuale. Ma anche offrire alle coppie infertili l’opportunità di provare a ottenere quel figlio tanto desiderato. Questi obiettivi non sono mutuamente esclusivi”.
       Secondo Vanmechelen, inoltre, ci sono in gioco temi etici di equità sociale e di distribuzione della conoscenza. “Non possiamo ignorare il fatto che, in altre parti del mondo, ci sono persone con i nostri stessi desideri, per esempio avere un figlio. E cercare di soddisfarli è un passo importante per costruire un mondo migliore, più stabile” commenta l’artista. “Non solo: più in generale, credo che abbiamo il dovere di condividere a livello globale le nostre conoscenze, perché è l’unico modo possibile per riuscire ad affrontare problemi complessi come molti tra quelli che abbiamo di fronte, dalle migrazioni internazionali al riscaldamento globale”.
       Il risultato principale conseguito finora dalla Fondazione è stato la messa a punto di un metodo a basso costo per la fecondazione in vitro, il cosiddetto metodo WE (da Walking Egg), che ha appena vinto uno degli Edison Awards – premi per innovazioni in grado di cambiare il mondo – nella categoria Salute femminile ed era già stato nominato dalla rivista “Popular Science” tra iBest of What’s New del 2014. Il metodo riduce all’osso le esigenze per un laboratorio di fecondazione in vitro: niente stanze dedicate, con complessi e costosi sistemi di filtraggio per mantenere costanti le condizioni ambientali, ma due semplici provette unite da un tubicino: un sistema chiuso contenente acido citrico e bicarbonato di sodio, in cui vengono poste la cellula uovo e gli spermatozoi e in cui, se tutto va bene, avviene la fecondazione e comincia lo sviluppo dell’embrione. In questo modo, il costo di un ciclo di fecondazione in vitro può essere abbattuto in modo drastico, e scendere a circa 200-500 euro: 10 volte meno rispetto al costo attuale, anche nei paesi in via di sviluppo.
Картинки по запросу in vitro       Il primo studio clinico sulla tecnica, testata presso l’istituto di tecnologie per la fertilità di Genk (Belgio) in cui lavora Ombelet è stato pubblicato nel 2014, e riferiva la nascita di sette neonati. “Ora i bambini nati in Belgio con questo metodo sono 43, tutti perfettamente sani” precisa il ginecologo, sottolineando che il tasso di successo in termini di gravidanze cliniche, circa il 25%, è perfettamente paragonabile a quello che si ottiene con le metodiche tradizionali, high-tech e high-cost. ”
       Forti di questo successo, Ombelet e colleghi hanno stipulato un accordo con il Pentecost Fertility Centre di Accra, in Ghana. Finora, però, le cose non sono andate benissimo. La prima spedizione dell’équipe belga in questo paese non ha portato i risultati sperati perché non era stata fatta a priori un’accurata selezione delle coppie da trattare, e ci si è trovati di fronte ad alcuni imprevisti. “Per esempio una scarsa qualità del liquido seminale di molti degli uomini che si sono presentati al centro. O l’età abbastanza avanzata delle coppie, con le donne che spesso avevano più di 30 o 35 anni. Il problema è che, oltre questa età, le donne africane tendono a sviluppare fibromi uterini che rendono difficoltoso l’impianto e la prosecuzione di una gravidanza”. Per la seconda spedizione è stata fatta una selezione più mirata delle coppie, ma le cose non sono andate molto meglio: “Abbiamo ottenuto poche cellule uovo e di scarsa qualità, anche se non è ancora chiaro perché. Forse c’è stato un problema con il farmaco utilizzato per la stimolazione ovarica, il tamoxifene, che viene utilizzato in alcuni ma non in tutti i protocolli di sperimenazione: può darsi che le donne non abbiano reagito bene, magari per ragioni legate al loro profilo genetico”. A questo punto, l’obiettivo è tornare in Ghana una terza volta, cambiando il protocollo di stimolazione ovarica e sperando che questa volta si riesca a ottenere almeno una gravidanza.
       Intanto, Ombelet sta per volare in Kenya per negoziare l’avvio di una collaborazione con un centro di Nairobi. Mentre cresce l’interesse anche nei paesi ricchi: a breve, il metodo WE dovrebbe essere offerto anche a Londra e in un centro portoghese.

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