Vanessa è una madre di 31 anni, che ha deciso di partorire due gemelli per una coppia gay italiana. Ecco la sua esperienza
Trentuno anni, cresciuta con un’educazione cattolica, una figlia di cinque, un lavoro come agente immobiliare e da sempre un desiderio: aiutare qualcun altro a realizzare il proprio sogno di famiglia. È così che Vanessa, californiana, ha conosciuto Claudio eStefano, una coppia gay italiana convolata a nozze proprio negli Usa qualche tempo fa e che adesso ha due gemelli, grazie a lei, alla donatrice di ovuli e alla gestazione per altri.
Come hai deciso di affrontare questa esperienza?
“Ho sempre voluto aiutare un’altra famiglia. C’erano dei miei parenti che avevano difficoltà ad avere figli e mi ero offerta di aiutarli. Poi, però, non mi hanno più detto nulla. Ma io sentivo questo forte desiderio di aiutare qualcuno. Così ho cominciato a cercare informazioni sulla surrogacy [la gestazione per altri, nda] trovando le risposte a tutte le mie domande, già molto tempo fa”.
Perché sentivi questo desiderio?
“Non lo so. Fin da piccola ho sempre voluto aiutare gli altri.
Per un po’ ho continuato a cercare informazioni. Poi, lo scorso anno, una mia amica ha pubblicato su Facebook qualcosa a proposito di una clinica della fertilità. Le chiesi cosa andasse a fare lì, perché sapevo che non aveva avuto problemi ad avere figli, in passato. Lei mi disse che avrebbe fatto da portatrice per una coppia. Così, presi un appuntamento nella stessa clinica, vicino Los Angeles, a mezz’ora di strada da casa mia”.
È lì che hai conosciuto Claudio e Stefano?
“Per prima cosa ho incontrato una donna che lavora nella clinica. Anche lei aveva fatto questa scelta, tempo fa, e ora si occupa di fare incontrare le coppie (etero o gay), ma anche i single, con le donne che vogliono donare gli ovuli o fare da portatrici. Mi ha fatto molte domande per capire cosa mi avesse spinta lì. E poi mi ha chiesto cosa ne pensassi delle coppie gay, perché ne era appena arrivata una”.
E tu cosa ne pensi?
“Le ho risposto che mi stava bene. Non ho alcun problema. Per me l’amore è amore, non importa che siano due donne, due uomini o un uomo e una donna, bianchi, neri ecc. L’amore non ha etichette. Quando vivevo in Arizona, il mio migliore amico era gay. Scherzando tra noi lui mi chiamava la sua ‘moglie etero‘ e io lo chiamavo il mio ‘marito gay‘. Lui mi ha fatto conoscere la realtà gay”.
Torniamo alla clinica per la fertilità. Cosa ti hanno chiesto?
“Hanno voluto conoscermi. Mi hanno chiesto la mia storia medica, se avessi figli e se potevo contare su una rete di sostegno, cioè su una famiglia e degli amici che mi stessero vicini. Poi mi hanno spiegato che a loro si rivolgono le famiglie che hanno delle difficoltà ad avere figli e che la surrogacy avviene quando una persona esterna affronta una gravidanza per altri. Ma erano tutte cose che io sapevo già. Quello che avevo da chiedere, riguardava la coppia di futuri genitori”.
Sapevi anche che per la gravidanza avresti ricevuto dei soldi? Questo ha influito?
“Sì, lo sapevo. Ma la mia scelta era a monte. Non ho affittato il mio corpo, ho fatto una scelta. Non sapevo a quanto ammontasse la cifra e non l’ho saputo fino al momento della firma del contratto, quando ero già sicura di quello che volevo fare. Non ho fatto domande su questo, non mi interessava: io volevo solo aiutare qualcuno. [Negli Usa anche le donazioni di sangue vengono ricompensate in denaro, nda]”.
Quando hai conosciuto Stefano e Claudio?
“Il primo giorno. Erano lì anche loro. Il primo incontro non è stato facile ed è stato anche un po’ strano. La barriera linguistica era un problema. Io non parlo italiano e l’inglese non è la loro lingua madre. Ma man mano che la conversazione continuava, tutto diventava più semplice e fluido. Loro sono stati molto chiari riguardo alla loro storia e io sono stata sincera. Non abbiamo deciso niente, quel giorno. Loro volevano conoscere altre persone, io ero la prima che incontravano”.
E poi cos’è successo?
“Ci siamo incontrati di nuovo, questa volta in un bar. Io ho portato mia madre e mia figlia con me. Abbiamo parlato ancora e loro hanno conosciuto una parte della mia famiglia. Quel giorno eravamo tutti più a nostro agio. Sono anche venuti a casa mia, perché volevano portare con sé l’immagine di me e della mia pancia che cresceva nella vita di tutti i giorni. Ma non c’è mai stato nessun obbligo: sia io sia loro avremmo potuto dire di no, se avessimo voluto”.
Quanto è passato dal primo incontro a quando è iniziata la gravidanza?
“Oh, quasi un anno! Soprattutto per via dell’assicurazione sanitaria. Io non ne avevo una e stava cambiando la legge, quindi abbiamo dovuto aspettare. Ci siamo incontrati ad aprile 2014 e io sono rimasta incinta nella seconda metà di gennaio 2015″.
Che genere di supporto ti ha fornito la clinica?
“Mi hanno aiutata in tutto. Hanno trovato l’assicurazione sanitaria adatta a me, sono anche stata sottoposta a una valutazione psicologica e mi hanno fornito supporto legale per gestire tutta la documentazione”.
Come ti sei sentita quando hai saputo di essere incinta?
“Ero molto eccitata. Non per me, ma per i ragazzi. Era una sensazione differente rispetto a quando aspettavo mia figlia. Avevo avuto quasi un anno per prepararmi psicologicamente a questo. Sapevo che non erano figli miei e non sentivo quel legame speciale che avverti quando aspetti un figlio tuo”.
Non è facile da capire, specialmente per chi un figlio lo ha avuto. Non c’è stato un attimo in cui hai pensato che potevano essere figli tuoi?
“No, mai. Quando aspettavo mia figlia, ogni calcio era un’emozione ed ero sempre eccitata al pensiero di lei, c’era un legame emotivo speciale. In questo caso, invece, sapevo che il mio ruolo era portare avanti la gravidanza e preoccuparmi che i gemelli nascessero sani per raggiungere la loro famiglia. È una forma diversa di amore”.
Come hai spiegato questi nove mesi alla tua famiglia e, soprattutto, a tua figlia?
“Alla mia famiglia ho detto che volevo farlo e loro mi hanno sostenuta. A mia figlia ho spiegato che sarei rimasta incinta, ma che i bambini non sarebbero rimasti con noi perché non erano suoi fratelli. Magari qualcuno non ci crederà, ma ha capito. Era tutta felice di vedere la mia pancia crescere e diceva a tutti che lì c’erano due bambini”.
Com’è andata la gravidanza? Erano due gemelli, non deve essere stato facile.
“È andata bene. Ho avuto qualche difficoltà all’inizio, ma ero sotto controllo medico e non era niente di preoccupante. Ero molto contenta che fossero gemelli: ho sempre desiderato una gravidanza così”.
L’ultimo mese è stato particolare, però.
“Sì. Claudio e Stefano sono tornati a un mese dalla scadenza dei nove mesi perché pensavamo che sarei entrata in travaglio prima del tempo: ero diventata davvero grossa, ogni giorno sembrava potesse essere quello giusto e loro non volevano perdersi niente. Erano felicissimi quando ci siamo visti e sono venuti con me a tutti gli appuntamenti dal dottore. Abbiamo passato molto tempo insieme. Era bello vederli così impazienti e felici”.
Raccontaci il giorno del parto.
“Quella mattina sono andata in ospedale un po’ prima del previsto, per fare delle analisi del sangue e assicurarmi che tutto fosse a posto. Ma appena arrivata, sono cominciate le contrazioni e i ragazzi non c’erano ancora. Ce l’hanno fatta giusto in tempo. In sala operatoria con me è entrato solo Stefano, perché la sala era piccola. Mi ha tenuto la mano per tutto il tempo, ma in realtà ero io che la tenevo a lui che piangeva per la gioia. È stato molto emozionante e toccante”.
Quando hai visto i gemelli per la prima volta?
“Quando erano già in braccio ai loro papà. Vedere i loro volti sorridenti, la loro famiglia completa, è stata una sensazione incredibile, difficile da descrivere. Dal momento in cui li ho visti tutti insieme, ho capito che avevo fatto la scelta giusta. Erano adorabili e sapevo che li amavo già, ma mi sono sentita come se fossi andata a trovare mia sorella e i suoi figli appena nati. Ecco, quel genere di amore”.
Sono passati più di due mesi da quando sono nati i gemelli. Sei ancora in contatto con Stefano e Claudio?
“Sì. Ci sentiamo spesso via internet. E rimarremo ancora in contatto”.
Fonte http://www.wired.it/lifestyle/salute/2016/01/13/storia-madre-parto-altri/
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