Certamente non tutti i cittadini del nostro paese sono in grado di fare entrambe le scelte con una certa consapevolezza, e questo può dipendere da quanto sono bravi a navigare nella rete, da quanto sono ostinati nel leggere tutto il possibile ma anche da quanto il medico o il sanitario con il quale parlano è in grado di trasmettere ciò che sa con chiarezza e abbondanza di particolari.
Un conto è esporre dei dati e altro è capire se l’interlocutore li ha compresi davvero.
Questo è, lo so, un tasto dolente.
Il tempo che si passa con un medico non è mai abbastanza, è inevitabile che le domande siano tante e soprattutto accade spesso, almeno a me, che le domande che vorrei fare mi vengano in mente tardi, magari quando torno a casa, parlo con mio marito, oppure con un’amica. A quel punto vorrei riparlare con quel medico, anche al telefono magari, ma non è così semplice.
Ovviamente, se ogni medico dovesse parlare una prima volta e poi una seconda e magari una terza, sempre con la stessa persona e dello stesso argomento, forse…….
E allora è quasi inevitabile tornare a casa dal colloquio con un professionista, ancora con molte domande in tasca.
Non è un problema semplice da risolvere. Nelle grandi aziende sanitarie, altamente specializzate e organizzate, i tempi di svolgimento delle visite sono tutti necessariamente contingentati e previsti (almeno nel valore medio), ma è piuttosto difficile, trattandosi di salute e di malattia, che i casi siano tutti uguali e quindi le previsioni possono saltare.
Pertanto da un lato va bene la standardizzazione (quella dei sistemi di qualità, per intenderci) perché è equa, produce uguaglianza di trattamento, indica un livello di qualità al quale attenersi, sotto al quale non è concesso andare, ma ancora non ci siamo.
Allora, in un tempo limitato bisogna entrambi, medico e paziente, dare il massimo, il che significa, per il medico, concentrare tutto quello che sa, ascoltare il proprio interlocutore con le antenne fuori, per cercare di comprendere anche le cose non dette, quelle che lei o lui volevano certamente dire, ma proprio lì, nell’emozione dell’incontro non sono venute fuori, e per il paziente ascoltare e metabolizzare una grande quantità di dati per lo più incomprensibili, ma molto importanti, in un tempo ridotto.
Una relazione complessa, quella tra “sani” e “malati”, tra chi sa e chi non sa, una comunicazione difficile, delicata, nel caso della medicina privata, complicata ulteriormente dalla variabile economica.
In fondo, anche se pensiamo di stare tutti dalla stessa parte, di essere veramente alleati nel cercare le soluzioni migliori, la fiducia va guadagnata caso per caso, con ogni singola persona, con ogni donna e ogni uomo che si siedono davanti a noi, e questo bisognerebbe non dimenticarlo mai.
In una indagine DOXA sono state intervistate donne che rientravano in un range di età compreso fra i 20 e i 44 anni, conviventi o sposate, che presentavano problemi di infertilità ma non avevano ancora fatto ricorso a trattamenti medici.
Il 55% delle donne intervistate riteneva che la migliore cura fosse il tempo e considerava i trattamenti farmacologici o chirurgici una forzatura. Il 34% di loro pensava che il trattamento medico fosse un modo innaturale per concepire un figlio e il ricorso a tali metodi veniva spesso visto come una sconfitta.
Il risultato di questa visione del problema è che solo il 41,7% di questi pazienti ha deciso di rivolgersi a strutture specializzate, il restante 58,3% ha preferito temporeggiare ed evitare trattamenti medici.
Interessante è, inoltre, la constatazione che tra le coppie che si rivolgono ai centri specializzati per intraprendere percorsi terapeutici il tasso di abbandono dopo il primo tentativo ad esito negativo è alto e la rinuncia avviene soprattutto per motivazioni di carattere psicologico.
In conclusione in questo settore della medicina, ancora piuttosto giovane scientificamente, forse più che in altri, c’è sicuramente bisogno di aumentare la quantità delle informazioni disponibili, ma forse quella che davvero non è ancora adeguata è la qualità.
Saper scegliere tra qualità e quantità è il lavoro che tutti dobbiamo affrontare, con un’unica certezza, che chi è seduto dietro ad un tavolo, prima o poi potrà finire anche dall’altro lato.
Se tutti ce ne ricordassimo un po’ di più, questa sarebbe già una buona base per costruire davvero, tra chi cura e chi è curato, alleanze terapeutiche forti.
Un conto è esporre dei dati e altro è capire se l’interlocutore li ha compresi davvero.
Questo è, lo so, un tasto dolente.
Il tempo che si passa con un medico non è mai abbastanza, è inevitabile che le domande siano tante e soprattutto accade spesso, almeno a me, che le domande che vorrei fare mi vengano in mente tardi, magari quando torno a casa, parlo con mio marito, oppure con un’amica. A quel punto vorrei riparlare con quel medico, anche al telefono magari, ma non è così semplice.
Ovviamente, se ogni medico dovesse parlare una prima volta e poi una seconda e magari una terza, sempre con la stessa persona e dello stesso argomento, forse…….
E allora è quasi inevitabile tornare a casa dal colloquio con un professionista, ancora con molte domande in tasca.
Non è un problema semplice da risolvere. Nelle grandi aziende sanitarie, altamente specializzate e organizzate, i tempi di svolgimento delle visite sono tutti necessariamente contingentati e previsti (almeno nel valore medio), ma è piuttosto difficile, trattandosi di salute e di malattia, che i casi siano tutti uguali e quindi le previsioni possono saltare.
Pertanto da un lato va bene la standardizzazione (quella dei sistemi di qualità, per intenderci) perché è equa, produce uguaglianza di trattamento, indica un livello di qualità al quale attenersi, sotto al quale non è concesso andare, ma ancora non ci siamo.
Allora, in un tempo limitato bisogna entrambi, medico e paziente, dare il massimo, il che significa, per il medico, concentrare tutto quello che sa, ascoltare il proprio interlocutore con le antenne fuori, per cercare di comprendere anche le cose non dette, quelle che lei o lui volevano certamente dire, ma proprio lì, nell’emozione dell’incontro non sono venute fuori, e per il paziente ascoltare e metabolizzare una grande quantità di dati per lo più incomprensibili, ma molto importanti, in un tempo ridotto.
Una relazione complessa, quella tra “sani” e “malati”, tra chi sa e chi non sa, una comunicazione difficile, delicata, nel caso della medicina privata, complicata ulteriormente dalla variabile economica.
In fondo, anche se pensiamo di stare tutti dalla stessa parte, di essere veramente alleati nel cercare le soluzioni migliori, la fiducia va guadagnata caso per caso, con ogni singola persona, con ogni donna e ogni uomo che si siedono davanti a noi, e questo bisognerebbe non dimenticarlo mai.
In una indagine DOXA sono state intervistate donne che rientravano in un range di età compreso fra i 20 e i 44 anni, conviventi o sposate, che presentavano problemi di infertilità ma non avevano ancora fatto ricorso a trattamenti medici.
Il 55% delle donne intervistate riteneva che la migliore cura fosse il tempo e considerava i trattamenti farmacologici o chirurgici una forzatura. Il 34% di loro pensava che il trattamento medico fosse un modo innaturale per concepire un figlio e il ricorso a tali metodi veniva spesso visto come una sconfitta.
Il risultato di questa visione del problema è che solo il 41,7% di questi pazienti ha deciso di rivolgersi a strutture specializzate, il restante 58,3% ha preferito temporeggiare ed evitare trattamenti medici.
Interessante è, inoltre, la constatazione che tra le coppie che si rivolgono ai centri specializzati per intraprendere percorsi terapeutici il tasso di abbandono dopo il primo tentativo ad esito negativo è alto e la rinuncia avviene soprattutto per motivazioni di carattere psicologico.
In conclusione in questo settore della medicina, ancora piuttosto giovane scientificamente, forse più che in altri, c’è sicuramente bisogno di aumentare la quantità delle informazioni disponibili, ma forse quella che davvero non è ancora adeguata è la qualità.
Saper scegliere tra qualità e quantità è il lavoro che tutti dobbiamo affrontare, con un’unica certezza, che chi è seduto dietro ad un tavolo, prima o poi potrà finire anche dall’altro lato.
Se tutti ce ne ricordassimo un po’ di più, questa sarebbe già una buona base per costruire davvero, tra chi cura e chi è curato, alleanze terapeutiche forti.
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