Autori dello studio sono Stefania Gonfloni e Gianni Cesarei delDipartimento di Biologia dell’Università di Roma Tor Vergata, che hanno identificato un particolare gene - c-Abl - in grado di modificare l’attività di un altro gene - TAp63 -, responsabile della perdita di fertilità nelle pazienti sottoposte a chemioterapia.
La proteina espressa da TAp63 normalmente vigila affinché il DNA delle cellule riproduttive (ovuli e spermatozoi) non accumulino neanche il più piccolo errore. Se però il DNA viene danneggiato (come accade a seguito di chemioterapie), queste cellule attivano il gene c-Abl che trasforma la proteina TAp63 da sentinella a kamikaze: in grado, cioè, di portare le cellule stesse al suicidio. In questo modo si evita che i danni al DNA siano trasmessi alla prole. In poche parole, si diviene sterili.
Una volta identificato il gene da cui parte l’effetto a cascata, però, è possibile arrestarlo. Gonfloni e colleghi lo hanno dimostrato sui topi. Bloccando la proteina c-Abl con un inibitore specifico infatti, si può impedire la trasformazione di TAp63 da sentinella a kamikaze durante un trattamento chemoterapico.
Usando l’inibitore di c-Abl, i ricercatori sono riusciti a proteggere gli ovociti dalla morte e, quindi, a prolungare la fertilità delle topoline, che hanno generato una progenie apparentemente sana. In futuro si dovrà verificare che, passando dal modello murino a quello umano, l’effetto dell’inibitore di c-Abl non venga meno, e che vi sia la possibilità di controllare gli effetti dei danni del DNA indotti dalla chemioterapia. Ad oggi, l’unico sistema per conservare la fertilità è la crioconservazione degli ovuli prelevati prima del trattamento chemioterapico.
Fonte: Università di Roma Tor Vergata; Nature Medicine 15, 1179 - 1185 (2009) Published online: 27 September 2009 | doi:10.1038/nm.2033.
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