venerdì 25 novembre 2016

La maternità dopo il cancro

La maternità dopo il cancro

         Diventare madre richiede grande energia a livello personale, e al tempo stesso impone adattamenti nel rapporto con il partner e con le famiglie d’origine.
Oggi la maternità è per la donna il risultato di un’attenta pianificazione e non più un ‘passaggio naturale’ della sua realizzazione personale e familiare; spesso viene rimandata per dedicarsi agli studi o alla carriera o semplicemente per vivere con maggiore libertà il rapporto di coppia. Quando sopraggiunge una malattia come il cancro che, direttamente o indirettamente, è in grado di compromettere la fertilità, la situazione diventa più complessa: nonostante il desiderio di maternità sia vissuto da ogni donna in maniera differente, alle preoccupazioni per la possibilità di non poter avere un figlio si affiancano le paure per la propria salute e per quella del bambino.
         E se la gravidanza aumentasse il rischio che la malattia ritorni? E se la ‘mia’ malattia fosse ereditaria? E se morissi, chi si prenderà cura del bambino?
Il modo migliore per fugare dubbi e timori è condividere con l’oncologo curante e con il ginecologo, possibilmente esperto nella gestione dei problemi di fertilità nelle pazienti oncologiche, il desiderio di avere un figlio dopo la guarigione in modo da ricevere informazioni corrette ed esaurienti per compiere scelte consapevoli, sicure ed efficaci.

Che cos’è la fertilità?

         In generale il termine fertilità indica la capacità di un organismo vivente di riprodursi, ossia di concepire una nuova vita, e si definisce vita fertile il periodo in cui la donna è in grado di procreare.         La probabilità mensile di concepire un figlio è intorno al 30%, ma si riduce al 20% dopo i 35 anni e al 10% dopo i 40 anni. La fertilità diminuisce con l’età, con effetti più evidenti nella donna che nell’uomo. Nell’uomo, le caratteristiche del liquido seminale declinano sensibilmente dopo i35 anni, ma la fertilità rimane pressoché invariata fino ai 50 anni circa. Nella donna, dopo i 40 anni la fertilità è drasticamente ridotta, perché con l’età gli ovociti diminuiscono numericamente e diventano qualitativamente scadenti. Aumenta quindi la percentuale di aborti spontanei e la possibilità che nascano bambini con difetti cromosomici (ad esempio la sindrome di Down).

Quali tumori potrebbero compromettere la fertilità?

Картинки по запросу diventare mamma         I tumori più frequenti nelle donne di 20-40 anni, quindi in piena vita fertile, interessano la mammella, la tiroide, la cervice uterina, il colon-retto e l’ovaio, poi vi sono i sarcomi, i linfomi e le leucemie.         Oggi è sempre più alto il numero di donne che devono affrontare il problema di una possibile infertilità sia perché  sono sempre di più i casi di malattia durante la vita fertile, sia perché l’età della prima gravidanza è sempre più avanzata.

         Quali trattamenti antitumorali potrebbero compromettere la fertilità?

         Tutti i trattamenti antitumorali – sia sistemici (chemioterapia, ormonoterapia, ecc.) che locali (radioterapia e chirurgia) – possono compromettere temporaneamente o permanentemente la fertilità.
Chemioterapia: può comportare la riduzione o la perdita della fertilità, ma si deve considerare che le reazioni al trattamento variano da individuo a individuo, da farmaco a farmaco, in funzione della dose somministrata e anche dell’età. Tutti i chemioterapici possono danneggiare le ovaie, ma alcuni possono avere effetti più pesanti sulla fertilità. Rientrano tra questi ciclofosfamide, melphalan, busulfano, le mostarde azotate, clorambucile, procarbazina, cisplatino, tuttora usati nel trattamento dei tumori della mammella, dell’apparato genitale e dei linfomi.
Il rischio di menopausa precoce è minore se la chemioterapia viene attuata in donne al di sotto dei 35 anni. Il fatto che il ciclo mestruale continui durante il trattamento o che riprenda, durante o dopo la sua conclusione, non sempre coincide con il mantenimento della fertilità. Può, infatti, accadere che, nonostante un ciclo mestruale regolare dopo la terapia, l’ovulazione sia assente o qualitativamente scadente; parimenti, l’assenza del ciclo mestruale non necessariamente indica la mancanza dell’ovulazione.
Ormonoterapia (o terapia ormonale): si usa nel trattamento dei tumori della mammella che presentano specifiche proteine dette recettori ormonali. Il farmaco più utilizzato è il tamoxifene, da solo o associato agli ormoni analoghi del GnRH. Se somministrato da solo, il rischio di menopausa precoce è molto basso al di sotto dei 45 anni, mentre aumenta leggermente se somministrato dopo la chemioterapia. Gli analoghi del GnRH mettono a riposo le ovaie, addormentando le cellule destinate alla riproduzione, che in questo modo diventano più resistenti alla chemioterapia. Quest’effetto è generalmente temporaneo: dopo una terapia di circa due anni, il ciclo mestruale riprende entro12 mesi nella maggior parte delle donne di età inferiore a 40 anni. Se ciò non accade, la causa non è la terapia, ma la ridotta quantità di ovociti rimasti e/o eventuali altri fattori quali stress emotivo, dimagrimento.
Chirurgia: l’asportazione dell’utero e/o delle ovaie e/o delle tube per tumori dell’apparato genitale blocca la funzione riproduttiva e la capacità dell’organismo di produrre gli ormoni; l’asportazione di un solo ovaio riduce parzialmente la fertilità. In alcuni casi è possibile ricorrere a trattamenti chirurgici mini-invasivi (conizzazione per l’asportazione di lesioni precancerose del collo dell’utero) in grado di preservare la fertilità senza peggiorare la prognosi.
Radioterapia: l’irradiazione della pelvi o dell’addome danneggia le ovaie o determina alterazioni vascolari o danni muscolari a carico dell’utero e quindi può compromettere la fertilità, ma tali effetti dipendono dalla dose erogata e dal suo frazionamento, dal campo di irradiazione e dall’età della paziente.
Anche la radioterapia per il trattamento di un tumore cerebrale può compromettere la fertilità in quanto influisce sulla secrezione degli ormoni che la regolano prodotti nell’ipotalamo e nell’ipofisi.

Fonte: La Fondazione Cesare Serono

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