mercoledì 30 novembre 2016

Infertilità e poliabortività, un nemico nascosto

        La sindrome da anticorpi anti-fosfolipidi è una malattia autoimmune legata a un errore del sistema immunitario che aggredisce componenti del proprio organismo, incluse proteine legate a fosfolipidi. In condizioni normali il nostro sangue deve essere fluido ma, in caso di alterazioni della struttura della cute e degli organi interni come ferite, ulcere, ecc., deve essere anche in grado di coagulare. Infatti, un’eccessiva fluidità (come avviene, ad esempio, in malattie come l’emofilia o in caso di eccessivo uso di farmaci anticoagulanti) può portare a pericolose emorragie; per contro una diminuita fluidità determina la formazione di coaguli (trombi) dentro le arterie e/o le vene con blocco della circolazione sanguigna e sofferenza dei tessuti e degli organi da essa nutriti.
Картинки по запросу Infertilità        Gli anticorpi anti-fosfolipidi interferiscono con questa delicata bilancia “spostandola” a favore della coagulazione. Il risultato è che il rischio di sviluppare trombosi aumenta enormemente. Il legame degli anticorpi con queste proteine altera, infatti, la normale fluidità del sangue favorendone la coagulazione.

        Diversi sono i meccanismi in gioco: 
a) gli anticorpi riconoscono i complessi proteina-fosfolipidi sulla superficie delle cellule endoteliali o di globuli bianchi del sangue, si legano a essi e alterano la funzione di queste cellule favorendo la coagulazione; 

b) gli anticorpi si legano ai complessi proteina-fosfolipidi che fanno parte della cascata della coagulazione e ne alterano le proprietà, favorendo in ultima analisi sia la formazione del coagulo, sia una sua più lenta risoluzione.

        La malattia colpisce prevalentemente soggetti giovani fra i 20 e i 40 anni. Le donne sono più frequentemente colpite (con una frequenza almeno tre volte superiore a quella dei maschi). Non si conosce la reale incidenza nella popolazione generale, tuttavia si ha un’idea relativa ad alcuni gruppi di persone: a) circa un terzo dei pazienti con malattie autoimmuni sistemiche (in prevalenza lupus eritematoso sistemico o LES, sindromi lupus-simili) presentano la sindrome; b) circa il 15-20 per cento delle donne con abortività ricorrente risulta positivo per anticorpi anti-fosfolipidi; c) circa la metà dei soggetti giovani (con meno di 50 anni) colpiti da ictus cerebrale è positiva per aPL.
In poco più della metà dei casi la sindrome si presenta come entità a sé stante (forma primitiva, PAPS) mentre nei restanti casi si associa (forma secondaria, SAPS) ad altre malattie autoimmuni come il LES. La forma primitiva rappresenta la causa più comune di trombofilia acquisita ed è responsabile di circa il 15-20 per cento dei casi di tromboembolismo venoso (TEV), di circa un terzo degli ictus che colpiscono i pazienti con età inferiore ai 50 anni e del 10-15 per cento di aborti ricorrenti. Stimando che il 2-5 per cento della popolazione generale ha avuto un tromboembolismo venoso, ne segue che questo associato alla PAPS colpisce fino ad un individuo su cento, numero del tutto considerevole.
        La forma secondaria determina una significativa proporzione di tromboembolismo venoso e aborti nei pazienti con altre malattie autoimmuni, in particolare il LES. Infatti gli aPL sono presenti nel 30-40 per cento dei pazienti con LES e circa un terzo di essi hanno manifestazioni cliniche della malattia da anticorpi anti-fosfolipidi (TEV, aborti).
        Esiste, infine, una forma spesso letale e molto aggressiva (APS catastrofica) ma fortunatamente è molto rara. Le manifestazioni cliniche dell’APS sono complesse e in realtà i pazienti spesso interpellano diversi specialisti (endocrinologi, internisti, immunologi clinici, reumatologi, ginecologi, neurologi, ematologi) prima di giungere a una corretta diagnosi. La principale manifestazione clinica della malattia (31,7 per cento) è rappresentata dalle trombosi, specie a carico delle vene degli arti inferiori. Altri quadri sono costituiti da trombocitopenia (diminuzione delle piastrine), alterazioni cutanee (livaedo reticularis, pelle con aspetto “marmorizzato” bianco e bluastro), ictus (13,1 per cento), tromboflebiti superficiali, embolia polmonare, attacchi ischemici cerebrali transitori (TIA) e anemia. È stata inoltre evidenziata una correlazione con emicrania, epilessia e con alcuni deficit cognitivi.
        Gli anticorpi antifosfolipidi costituiscono una categoria ampia ed eterogenea di anticorpi diretti verso differenti complessi di proteine-fosfolipidi. Tra i più importanti (e pertanto dosati nella pratica clinica) ricordiamo gli anti-cardiolipina (aCL) e gli anti 2-glicoproteina 1 (2-GPI). In aggiunta viene spesso valutato il cosiddetto Lupus AntiCoagulant (LAC), un fenomeno di laboratorio caratterizzato dall’allungamento dei tempi di coagulazione dovuto agli anti- 2-GPI e ad altri anticorpi. Sebbene la positività a tutti e tre i test accresca notevolmente il rischio trombotico, è chiaro che per la diagnosi di APS non è necessario che siano tutti positivi: è sufficiente anche uno solo di essi che resti positivo nel tempo. È inoltre da precisare che il titolo di questi anticorpi può orientare sul rischio, cioè a valori più elevati corrisponde un maggiore rischio ipotetico di manifestazioni cliniche.
        Si parla di rischio: la presenza di anticorpi anti-fosfolipidi non significa che ci sarà necessariamente una trombosi ma che l’aggiungersi di un altro fattore di rischio (es. immobilizzazione, interventi chirurgici importanti, insufficienza venosa cronica, etc.) potrebbe scatenare un eccesso coagulativo, con conseguenze cliniche che dipendono dalla sede del coagulo. Se esso infatti si forma nelle arterie la conseguenza più importante è rappresentata dalla mancanza di ossigeno (ischemia) trasportato dal sangue negli organi a valle: ne conseguirà, ad esempio, infarto cardiaco se sono coinvolte le coronarie, ictus se sono coinvolte le carotidi o le arterie intracraniche, etc. Se invece il coagulo si forma in una vena profonda è possibile che si muova e che sia trasportato dal circolo sanguigno fino al polmone, con conseguenze anche gravi (embolia polmonare).
        Clinicamente la positività ad aPL determina quadri che vanno dalla cosiddetta “APS asintomatica”, a lievi trombosi venose superficiali, fino al quadro della APS catastrofica, caratterizzato da un grave coinvolgimento multiorgano potenzialmente letale. Il rischio di aborti e l’elevata frequenza di gravidanze a rischio rappresentano uno dei principali problemi legati a questa malattia. Circa il 70 per cento delle donne positive ad aPL, infatti, presenta complicanze (aborti ripetuti, ritardo di crescita del feto, morti endouterine) durante la gravidanza. Ad oggi gli aPL rappresentano il più frequente fattore di rischio trattabile di aborti e patologie gravidiche, quali, ad esempio, la gestosi.
Blausen_0737_PlacentalAbruption        L’aumentata tendenza alla coagulazione, tipica dell’APS, è responsabile di un’ampia percentuale di aborti: infatti, in alcuni casi, le trombosi a livello della placenta determinerebbero un alterato apporto di sangue al feto causandone la morte. L’abortività, specie quella nei primissimi periodi della gravidanza, è anche dovuta all’effetto degli anticorpi sulle cellule che formano la placenta e che determinano difficoltà nell’annidamento dell’embrione nell’utero materno. Sebbene esista la possibilità di negativizzazione degli aPL, sia spontanea sia in persone trattate con farmaci immunosoppressori, la questione di come questa possa essere interpretata è oggetto di discussione e non c’è un accordo generale in merito. Quindi le conseguenze pratiche di eventuali diminuzioni o scomparsa degli aPL devono essere discusse con il proprio medico e valutate singolarmente ed eventuali decisioni terapeutiche devono essere prese in accordo con la situazione generale del paziente.
        La terapia dell’APS si basa essenzialmente sul controllo della malattia di base nelle forme secondarie e sull’uso di farmaci che impediscono la coagulazione eccessiva (anticoagulanti e farmaci che impediscono l’aggregazione delle piastrine). Con l’uso di particolari anticoagulanti (eparina) che non sono dannosi per il feto e con l’aspirina a basse dosi si può evitare l’abortività ricorrente nella stragrande maggioranza dei casi. Un ulteriore miglioramento sarà possibile in tempi brevi non appena saranno disponibili nuovi farmaci antitrombotici attualmente in studio.
        La ricerca ha recentemente fornito molte informazioni sui meccanismi che determinano le manifestazioni cliniche della malattia: ha chiaramente identificato gli anticorpi anti-fosfolipidi quali i reali responsabili della malattia e ha confermato il valore predittivo degli anticorpi in termini di comparsa delle manifestazioni della sindrome. Particolare importanza è data oggi a un corretto approccio al paziente con APS volto, in particolar modo, all’identificazione di fattori di rischio per la comparsa di eventi trombotici. A tal proposito si rendono tuttavia necessari studi multicentrici che riescano a includere grandi numeri di malati. Nuove opzioni terapeutiche, ancora in fase sperimentale, fanno ben sperare per un migliore trattamento della sindrome.

Come prevenire il tumore all’utero con la dieta

       Tale tumore si sviluppa tradizionalmente per lo più dopo la menopausa. I principali fattori di rischio sono l’obesità, il diabete, la nulliparità, il non uso di contraccettivi orali ( quest’ultimo contribuisce da solo a ridurre il rischio di avere tale tumore di circa il 50%).
       In un recente lavoro scientifico , condotto dall’ Istituto Mario Negri di Milano e pubblicato sul British Journal of Cancer, è stato dimostrato che la dieta mediterranea riduce del 50% il rischio di ammalare di carcinoma dell’endometrio.
Картинки по запросу tumore al collo dell'utero       Lo studio ha coinvolto circa 5000 donne. Per valutare la aderenza alla dieta mediterranea è stato preso in esame il consumo di verdura, frutta, legumi, cereali, patate, pesce, grassi polinsaturi, alcool in quantità moderata, alimenti tipici della dieta mediterrane, nonchè di carne, latte e latticini, di cui tale dieta è povera.
       Le donne che seguivano la dieta mediterranea hanno presentato un rischio di ammalare del carcinoma dell’endometrio ridotto del 57% rispetto alle altre.
       Sembra che l’effetto antitumorale di tale dieta sia legato al suo alto contenuto di antiossidanti, di fibre e di grassi polinsaturi.
       La dieta mediterranea, quindi, oltre a ridurre il rischio di ammalare di infarto miocardico, di tumore del cavo orale, del fegato e del pancreas, aggiunge al suo attivo un altro importante effetto benfico, nella prevenzione del più diffuso dei tumori femminili.

Fonte:
Filomeno et al. Mediterranean diet and risk of endometrial cancer: a pooled anlysis of three Italian case-control studies. British Journal of Cancer (2015) 112, 1816-1821, doi: 10.1038/bjc.2015.153

Malattia infiammatoria della pelvi

       La PID si verifica comunemente nelle donne < 35 anni. È raro che si verifichi prima del menarca, dopo la menopausa o durante la gravidanza. I fattori di rischio per la PID acuta includono i numerosi partner sessuali, una precedente PID, l’uso di un IUD, la presenza di una vaginosi batterica o di una STD, la nulliparità e una recente procedura invasiva a carico dell’utero (p. es., un aborto).
      I contraccettivi orali riducono il rischio di sviluppare una PID acuta. La PID è causata da microrganismi trasmessi durante il rapporto sessuale, le procedure invasive, l’aborto o il parto. L’infezione è, di solito, multifattoriale, coinvolgendo organismi aerobi e anaerobi. La N. gonorrhoeae è la causa più frequente di PID e può causare anche una sepsi, una poliartrite migrante, un’endocardite, un’infezione anale e un’uretrite; quest’ultima può essere asintomatica nelle donne.
      La trasmissione maschio-femmina è più frequente della trasmissione femmina-maschio. I fattori di rischio sono rappresentati dalla giovane età, dalla razza diversa dalla bianca, dal basso stato socioeconomico e dai partner sessuali multipli o nuovi. La C. trachomatis ha 15 sierotipi, che causano uno spettro di infezioni che vanno dall’infezione della ghiandola del Bartolini alla congiuntivite e alle infezioni orofaringee. Infetta il 5% delle donne non gravide. La metà delle donne con un’infezione da Chlamydia è asintomatica e ha una cervice che sembra normale. I fattori di rischio sono simili a quelli della N. gonorrhoeae.
      La più frequente infezione clinica dovuta alla C. trachomatis è la cervicite. La paziente si presenta con dolore ai quadranti inferiori dell’addome, febbre, perdite vaginali e/o un anomalo sanguinamento uterino. I sintomi si verificano frequentemente durante o dopo le mestruazioni. L’irritazione peritoneale produce un marcato dolore addominale con o senza dolore al rilascio della palpazione.

      Cervicite: la cervice è iperemica e sanguina facilmente (quando toccata con una spatola o con un bastoncino di cotone). La perdita mucopurulenta è verde-giallastra e contiene > 10 GB polimorfonucleati.
      Salpingite acuta: inizia, in genere, poco dopo le mestruazioni. Il dolore, localizzato ai quadranti inferiori dell’addome, diventa progressivamente più grave con la comparsa di una contrattura di difesa, dolorabilità di rimbalzo e ai movimenti del collo dell’utero.       L’interessamento è, in genere, bilaterale. La nausea e il vomito si verificano durante le gravi infezioni. Nelle fasi precoci, i segni addominali acuti sono spesso assenti. La peristalsi è presente a meno che non si sia sviluppata una peritonite con un ileo paralitico. Sono frequenti la febbre, la leucocitosi e le perdite cervicali mucopurulente; il sanguinamento irregolare e la vaginosi batterica spesso accompagnano l’infezione pelvica. prima che compaiano le manifestazioni cliniche della malattia acuta.
      Salpingite cronica: l’infezione acuta non trattata o trattata in modo inadeguato può causare una salpingite cronica, con la formazione di lesioni cicatriziali nelle tube e di possibili aderenze. Il dolore pelvico cronico, le irregolarità mestruali e l’infertilità rappresentano le sequele a lungo termine.

ettore      Complicanze. L’ascesso tubo-ovarico si sviluppa in circa il 15% delle donne affette da una salpingite. Può accompagnare un’infezione acuta o cronica e può richiedere un’ospedalizzazione prolungata e talvolta il drenaggio chirurgico percutaneo. La rottura dell’ascesso rappresenta un’emergenza chirurgica, che si manifesta repentinamente con l’aggravamento del dolore ai quadranti addominali inferiori e la comparsa di nausea, vomito, i segni della peritonite generalizzata e dello choc settico. Può essere presente anche un piosalpinge, in cui una o entrambe le tube di Falloppio sono piene di pus. Il liquido può essere sterile, ma con predominanza di GB. L’idrosalpinge (ostruzione della fimbria e distensione della tuba da parte di liquido non purulento) si sviluppa se il trattamento è tardivo o incompleto. La conseguente distruzione della mucosa causa l’infertilità. L’idrosalpinge è, di solito, asintomatica, ma può causare una compressione pelvica, un dolore pelvico cronico o una dispareunia. La sindrome di Fitz-Hugh-Curtis può essere una complicanza della salpingite gonococcica o da Chlamydia. È caratterizzata da un dolore localizzato al quadrante superiore di destra in associazione a una salpingite acuta, che indica la presenza di una periepatite. Può essere sospettata una colecistite acuta, ma i sintomi e i segni di una PID sono presenti o si sviluppano rapidamente.

      Diagnosi. I criteri clinici più importanti sono la dolorabilità nei quadranti addominali inferiori, la dolorabilità annessiale unilaterale o bilaterale e la dolorabilità al movimento della cervice. I criteri minori includono una temperatura buccale > 38,3°C, delle perdite cervicali o vaginali anomale, una VES elevata, una proteina C-reattiva elevata e la documentazione di laboratorio dell’infezione cervicale dovuta alla N. gonorrhoeae o alla C. trachomatis; la VES e la proteina C-reattiva sono elevate in molti disturbi e non sono quindi specifiche per la PID. Tutti e tre i criteri maggiori e almeno uno dei criteri minori devono essere presenti per porre diagnosi di PID. La leucocitosi è tipica. Si può eseguire un’ecografia pelvica quando la paziente non può essere visitata in modo adeguato a causa della dolorabilità o del dolore, quando può essere presente una massa pelvica o quando non si verifica alcuna risposta alla terapia antibiotica per 48-72 h. La laparoscopia deve essere eseguita se la diagnosi è dubbia o se la paziente non migliora rapidamente con la terapia medica.

      Terapia. Gli obiettivi terapeutici includono la completa risoluzione dell’infezione e la prevenzione dell’infertilità e della gravidanza ectopica. A questo scopo, l’immediato e vigoroso trattamento con la terapia antibiotica deve essere iniziato appena si conoscono i risultati degli esami colturali. Le tradizionali indicazioni per il trattamento con il ricovero includono la nulliparità o la bassa parità, i sintomi gravi (p. es., una febbre importante, una leucocitosi, il dolore), una gravidanza sospetta e una tumefazione palpata all’esame della pelvi; in questi casi, la terapia EV deve continuare fino a quando la paziente è afebbrile da 24 h. Il drenaggio percutaneo o transvaginale dell’ascesso tubo-ovarico può essere eseguito sotto guida ecografica.

Calcolo delle probabilità di gravidanza con un trattamento di fecondazione assistita

         La probabilità in questione  viene  calcolata tramite due strumenti messi a punto dall’Università di Aberdeen in Scozia.
  1. calcolatore  senza altri trattamenti di FIVET/ICSI alle spalle
  2. calcolatore con precedenti percorsi di FIVET/ICSI
         Il primo calcola la probabilità prima del primo trattamento, il secondo le probabilità quando alle spalle si hanno già trattenimenti di fecondazione assistita non andati a buon fine.
         Il calcolatore dando una stima delle possibilità di successo per cicli successivi, permette anche di capire quale sarà l’impegno economico per poter raggiungere una gravidanza. Se so a priori infatti che  molto probabilmente mi serviranno 3-4 cicli di trattamento si possono fare alcune valutazioni anche dal punto di vista finanziario.

Come si usa il calcolatore  1

L’utilizzo del calcolatore è molto semplice, richiede infatti pochi  dati:
  • L’età della donna
  • Il numero di anni di ricerca della gravidanza
  • se esistono problemi ad ovulare
  • Se esiste un problema di ovulazione
  • Se si tratta di infertilità inspiegata
  • Se esiste un problema di pervietà delle tube
  • Se ci sono state altre gravidanze precedenti
  • Se il partner ha problemi di fertilità
  • Se  si prevede un percorso di FIVET o  di ICSI
Vai al calcolatore 1   su  https://w3.abdn.ac.uk/clsm/opis/tool/ivf1

E questo il risultato ottenuto con il calcolatore.
risultati-calcolatore-fivet
         In pratica con un solo ciclo di trattamento avrei solo il 19,68% di possibilità di avere un bambino, per superare il 50% delle possibilità dovrei sottopormi a 5 cicli.
Facciamo ora un piccolo esperimento.
         Se lascio  uguale tutti i dati ma cambio l’età scendendo a 30 , il grafico cambia tantissimo:
risultati-calcolatore-fivet-30-anni
         Viceversa se aumento di solo un anno la mia età portandola a 41 ( e quindi portando a 2 gli anni di tentativi):
trattameno-2
         L’anno prossimo quindi avrei  il 14, 51 %  di possibilità, più del 5% in meno rispetto a quest’anno e 6 cicli non mi basterebbero per arrivare al 50% di possibilità.
Questo ci fa capire quanto sia importante non rimandare nel tempo la decisione di sottoporsi a un trattamento di fertilità se l’età  non è la migliore…

Come si usa il calcolatore  2

In questo caso i dati richiesti sono leggermente diversicalcolatore-post-ivf
Si ottengono anche in questo caso dei  grafici di probabilità.
Vai al calcolatore 2 se si sei già sottoposta  a precedenti trattamenti di fecondazione in vitro su  https://w3.abdn.ac.uk/clsm/opis/tool/ivf2
         La realizzazione dei 2 calcolatori è stata possibile grazie allo studio condotto su  113,873 donne con 184,269 cicli di completi di fecondazione in vitro.

Avvertenze

          Il calcolatore da solo una stima e solo uno specialista in medicina della riproduzione  potrà fornire una analisi completa della situazione della coppia e la potrà aiutare anche in base ad altri fattori che sono specifici  di ogni coppia e che non possono  essere inclusi nel modello.
         La fecondazione in vitro è una procedura costosa sia in termini economici ma anche in termini di fatica fisica e mentale. Quindi prima di decidere quale percorso affrontare è  bene raccogliere tutte e le informazione e i pareri medici possibili.
Fonte http://www.periodofertile.it/fertilita/calcolo-delle-probabilita-di-gravidanza-con-un-trattamento-di-fecondazione-assistita

Gonadotropine, FSH, LH – I farmaci per ovulazione

        La famiglia delle gonadotropine comprende tre ormoni: FSH, LH e hCG.

In particolare:
  • FSH ormone follicolo stimolante
    stimola la crescita e lo sviluppo dei follicoli durante la prima metà del ciclo mestruale
  • LH ormone luteinizzante
    prodotto dalla metà del ciclo in poi, indirizza lo sviluppo dei follicoli verso l’ovulazione vera e propria e sostiene il corpo luteo, ovvero l’elemento che dopo lo scoppio del follicolo mantiene la produzione di progesterone nella seconda metà del ciclo allo scopo di sostenere un’eventuale inizio di gravidanza.

FSH e LH sono sintetizzati dalle cellule gonadotrope dell’adenoipofisi.
       Queste cellule costituiscono il 10-15% del parenchima ghiandolare.
L’hCG è prodotto dal corion e poi dalla placenta nel caso in cui un embrione si impianti nell’utero. Ha la funzione di prolungare, durante la gravidanza, l’effetto dell’LH sul corpo luteo.

       Tali ormoni sono presenti sia nella femmina che nel maschio (ad eccezione dell’hCG) ed hanno funzioni essenziali sullo sviluppo, la maturazione, il mantenimento delle funzioni delle ovaie e dei testicoli.
       FSH ed LH vengono secreti sotto stimolazione del GnRH che è l’ormone di rilascio ipotalamico delle gonadotropine. Il GnRH viene secreto in maniera pulsatile con periodo di 1-3 ore, ciò comporta una oscillazione dei livelli ematici anche di LH e FSH.

Utilizzo delle gonadotropine nella PMA
       L’utilizzo di queste sostanze nella procreazione assistita ha, dunque, lo scopo di mimare e rafforzare le funzioni ormonali fisiologiche allo scopo di stimolare e rendere produttiva l’attività ovulatoria. Le gonadotropine sono utilizzate nella PMA per effettuare la stimolazione ovarica necessaria per eseguire tecniche di fecondazione assistita come la FIVET o la ICSI, che prevedono il prelievo o pick up degli ovociti maturi.
Inizialmente si utilizzavano le cosiddette “gonadotropine umane menopausali”,isolate e purificate da urine di donne in menopausa. Il prodotto ottenuto in questo caso è una miscela di FSH e LH.

       Attualmente i progressi raggiunti in campo scientifico hanno consentito di sintetizzare in laboratorio gonadotropine ricombinanti, ottenibili in forma pura, cioè solo FSH o solo LH.
Questi farmaci vengono somministrati per via iniettiva, con dosaggi e terapie personalizzati. I protocolli di scelta sono due: lungo o breve, a seconda del caso in questione, dell’età della donna, della risposta dell’organismo e delle ovaie e anche del numero e dell’esito dei tentativi fatti in precedenza. La paziente viene seguita tramite ecografie e misurazione del livello di estradiolo.
ormoni       Nel corso della terapia i follicoli si sviluppano gradualmente e il loro diametro aumenta progressivamente; sale anche il livello di estradiolo.
Quando i follicoli sono sviluppati (ossia il loro diametro ha superato i 17mm) e l’estradiolo ha raggiunto i livelli desiderati, proporzionalmente al numero dei follicoli, si giunge all’ultima fase della terapia ormonale, nella quale si pratica una iniezione intramuscolare che fa maturare gli ovociti.

       L’ovulazione viene stimolata con iniezione di gonadotropina corionica umana (hCG), la cui azione simula quella svolta dall’ormone luteinizzante (LH) in fase preovulatoria. Fatta anche l’ultima iniezione, il trattamento viene sospeso e dopo circa 36 ore,  la paziente si prepara al prelievo degli ovuli.

Gli effetti collaterali
       Trattandosi di sostanze già naturalmente presenti e attive nell’organismo, gli eventuali effetti collaterali non discendono strettamente dalla loro somministrazione, bensì dalle conseguenze dei loro effetti fisiologici:
  • aumento dei livelli estrogenici legato al picco ovulatorio,
  • crescita di numero e dimensioni dei follicoli ovarici.
       Tali eventi sono avvertibili dalla donna sotto forma di transitorio aumento ponderale legato alla ritenzione idrica, nausea e sensazione di gonfiore.
Si parla invece di sindrome da iperstimolazione ovarica quando le ovaie rispondono al trattamento in maniera esagerata. Le ovaie si riempiono di cisti, c’è accumulo di liquido nell’addome, e ciò provoca un intenso senso di malessere.

       Nei casi più gravi le ovaie si gonfiano e la paziente può soffrire di nausea, vomito, dolore all’addome e allo stomaco, gonfiore addominale, dispnea, aumento del peso corporeo, riduzione della quantità di urina, malessere, debolezza e svenimento. Se si verificano queste reazioni occorre rivolgersi subito al proprio medico curante ed interrompere la cura.
       Trattasi di effetti collaterali principalmente reversibili e di breve durata, ma che sottolineano l’importanza di un’adeguata sorveglianza medica nel corso di questo tipo di terapie.

martedì 29 novembre 2016

Attenzione! La pillola protegge dal cancro dell’endometrio, il più frequente tumore ginecologico

        Il carcinoma dell’endometrio è il più frequente tumore della sfera genitale femminile.
Secondo “I numeri del cancro in Italia 2013“, ultima statistica AIRTUM, tra i tumori del sesso femminile il più frequente è il tumore della mammella (29% di tutti i tumori), seguito dai tumori del colon-retto (14%), del polmone (6%), del corpo dell’utero (5%) e della tiroide (5%).
       I tumori del collo dell’utero e dell’ovaio sono più rari. Nulliparità, obesità, diabete, ipertensione, eccesso di grassi animali nella dieta, l’età dai 50 anni in su sono riconosciuti come fattori di rischio.
       Per questo tumore non esistono programmi validati di screening, come per i tumori della mammella e della cervice uterina.
       L’uso della pillola per almeno 5 anni è associato a un rischio relativo di 0.76 (P inferiore a. 0001). Quindi, per extrapolazione, l’utilizzo della pillola contraccettiva per almeno 10-15 anni potrebbe dimezzare l’incidenza del carcinoma dell’endometrio. Tale effetto protettivo si mantiene per circa 30 anni dalla sospensione della pillola.
       Inoltre è stato dimostrato da altre ricerche che la pillola abbassa anche l’incidenza del carcinoma ovarico e del carcinoma del colon-retto.
       Tale effetto protettivo non è influenzato dal dosaggio dell’estoprogestinico, che oggi è notevolmente ridotto rispetto al passato, per aumentare la tollerabilità del farmaco.
Картинки по запросу pillola anticoncezionale       In conclusione, contrariamente a quanto temono molte donne, non solo la pillola non aumenta il rischio di ammalare di tumore, ma addirittura lo riduce!
       Poichè si tratta di un farmaco che potenzialmente può esporre a rischi circolatori, soprattutto nelle donne con fattori di rischio per la trombosi venosa, la sua prescrizione richiede un’attenta valutazione da parte dello specialista ginecologo, che deve informare correttamente la donna dei rischi e benefici dell’assunzione del farmaco e seguirla nel tempo.

Fonte:Lancet Oncol. Published online August 5, 2015, I numeri del cancro in Italia – 2013

Fibrosi cistica, una patologia in evoluzione

        I più colpiti sono le vie aeree inferiori e superiori (polmoni e seni paranasali) pancreas, ma sono interessati anche intestino e fegato. Negli uomini l’alterazione del gene causa anche l’infertilità. I polmoni subiscono le conseguenze più evidenti: all’interno dei bronchi il muco tende a ristagnare, da qui l’esposizione dei pazienti a infezioni gravi, come quella da Pseudomonas aeruginosa. L’infezione e l’infiammazione cronica portano a un progressivo danno polmonare, che può causare il decesso per insufficienza respiratoria.
        Anche nel pancreas i dotti di escrezione principali e secondari subiscono il ristagno delle secrezioni mucose con conseguente attivazione intraparenchimale degli enzimi digestivi come la tripsina. Per questi motivi il pancreas presenta una infiammazione cronica, spesso già durante la vita fetale; si formano cisti e il tessuto circostante diventa fibrotico, impedendo il passaggio nell’intestino degli enzimi digestivi. Di qui l’alto rischio di malnutrizione, carenze vitaminiche, complicazioni intestinali, diabete, e molto altro ancora. Anche il fegato, in una percentuale minore di pazienti può andare incontro allo sviluppo di cirrosi biliare macronodulare con ipertensione portale fino all’insufficienza epatica e scompenso con ascite.
        La FC è una delle patologie incluse nel test di screening neonatale che in Italia è obbligatorio per legge: si stima che ogni 2.500-3.000 bambini nati in Italia, uno sia affetto da fibrosi cistica. “La Fibrosi Cistica deve essere considerata a tutti gli effetti una patologia cronica di elevata complessità assistenziale– spiega la Dr.ssa Vincenzina Lucidi, Responsabile dell’Unità Fibrosi Cistica, Dipartimento di Medicina Pediatrica, dell’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù di Roma- soprattutto alla luce dell’aumento della sopravvivenza dei pazienti.
        Oggi in Italia si contano circa 6000 pazienti affetti da FC e di questi il 50% sono pazienti pediatrici, quindi pazienti che hanno meno di 18 anni. La prevenzione, la diagnosi precoce e la cura delle complicanze che il gene causa nei diversi organi richiedono controlli periodici e trattamenti intensivi necessari soprattutto per combattere le gravi infezioni polmonari. Presso la nostra struttura nel 2014 abbiamo effettuato circa 400 ricoveri e oltre 1600 day hospital. Il day hospital sta diventando il luogo di cura, di formazione ed educazione del paziente e la sua famiglia sulle procedure e terapie necessarie per prevenire le complicanze”. All’OPBG circa il 35% dei ricoverati per fibrosi cistica provengono da centri di cura di altre Regioni per specifici interventi subspecialistici.
        “Il ruolo che l’Ospedale BG svolge per pazienti FC in followup presso altre Regioni – prosegue Lucidi – è di disponibilità e collaborazione con i medici curanti mettendo a disposizione le proprie competenze e tecnologie: penso ad interventi di radiologia interventistica o di endoscopia interventistica così pure interventi chirurgici per gravi complicanze polmonari o intestinali. Oppure trapianti d’organo, come fegato e polmone.
        Molti Centri di cura italiani dispongono di clinici di grande competenza ed esperienza, ma a volte mancano risorse tecnologiche adeguate. Quasi tutti i Centri lavorano con equipe multidisciplinari (clinici, infermieri, psicologi, fisioterapisti, dietisti competenti in FC) ma la complessità delle complicanze che la malattia esprime a volte richiede la partecipazione di altri specialisti. Ma è solo grazie alle diagnosi precoci pre-sintomi come avviene con lo screening neonatale, alle tecnologie e ai miglioramenti terapeutici se oggi i pazienti diventano adulti. In Italia – conclude Lucidi – troppe Regioni non dispongono di strutture adeguate per la presa in carico dell’adulto con FC. Anche presso la nostra struttura pediatrica, ad esempio, sono circa 150 i pazienti adulti in follow up.” La Legge 548 del 1993, che ha istituito i Centri di Riferimento regionali per la Fibrosi Cistica ha di fatto facilitato la strutturazione dei centri pediatrici ma oggi è indispensabile risolvere il problema degli adulti FC in
Fibrosi-cistica        Italia in ogni Regione. “I pazienti adulti rappresentano nel nord d’Italia il 55- 60% – spiega il Prof. Baroukh Maurice Assael, direttore del Centro Fibrosi Cistica dell’Azienda Ospedaliera di Verona – e sono in costante aumento gli ultraquarantenni. Questo dipende ovviamente dal miglioramento delle terapie disponibili, ma anche e soprattutto dallo screening neonatale.” “Il paziente più giovane da noi ha 19 anni – Dr. Vincenzo Carnovale, del Centro di Riferimento Regionale Fibrosi Cistica dell’Adulto di Napoli – ma ben 130 pazienti superano i 30 anni d’età. Sono 57 i pazienti ad aver superato i 40 e questo dimostra come siano realmente cambiate le necessità della FC.
        Oltre a sottoporre i pazienti alle complesse terapie che vengono semplificate grazie a formulazioni innovative (come ad es. le polveri inalatorie) e a device sempre più tecnologici, veloci e trasportabili (aerosol wireless ad esempio), cerchiamo di prenderci cura di loro in quanto persone, con esigenze di socialità, tempo libero, sport, affettività.” Affettività vuol dire anche famiglia, e il desiderio di avere dei figli. “Il primo bambino qui è nato nel 2006 – spiega Carnovale – e oggi molte madri affrontano serenamente (ma sotto stretto controllo medico) la gravidanza. Per i pazienti maschi la questione è diversa, perché il 98% degli uomini affetti da FC è azoospermico (gli spermatozoi vengono regolarmente prodotti, ma non riescono a spostarsi lungo i dotti a causa della estrema densità dei fluidi dell’apparato riproduttivo e non possono essere eiaculati nel liquido seminale).” E’ quindi necessario ricorrere alla procreazione medicalmente assistita. In molti casi è possibile prelevare, grazie a tecniche microchirurgiche, gli spermatozoi di paziente FC.
        Per poter avere la ‘sicurezza’ di generare un figlio sano sarà però necessario ricorrere alla diagnosi preimpianto. “Ricordiamo che una persona ogni 25 può essere portatore sano della FC – spiega Carnovale – ma spesso se ne accorge solo dopo aver dato alla luce un figlio affetto dalla malattia. Per questo la Società Italiana Fibrosi Cistica sta valutando la possibilità di effettuare su tutta la popolazione lo ‘screening al portatore’, l’indagine genetica per ricercare la presenza delle mutazioni che causano la FC. Il costo dell’esame è però molto alto, circa 800 euro per ogni test.”
Ilaria Vacca

STATUS DI SALUTE DELLA DONNA IN ITALIA

       La medicina tradizionale ha subito dagli anni ’90 una profonda evoluzione superando la tradizionale impostazione androcentrica che relegava gli interessi per la salute femminile ai soli aspetti riproduttivi: si è compreso che studiare l’impatto del genere e di tutte le variabili che lo caratterizzano sui meccanismi eziopatogenetici e sugli aspetti clinici delle malattie consente un miglior approccio diagnostico e terapeutico.
       Leggendo i dati più recenti possiamo affermare che complessivamente le donne italiane sono in buona salute, anche se permangono marcate differenze tra macro aree geografiche e regioni (con il sud, purtroppo, ancora in svantaggio) in termini di distribuzione del benessere, accessibilità e appropriatezza dei servizi sanitari offerti.
       Le donne vivono più a lungo degli uomini, ma si ammalano di più in età avanzata anche a causa di fattori socio culturali e multi tasking propri dello stile di vita femminile; sono le donne, infatti, le maggiori consumatrici di farmaci e fruitrici del SSN, pur registrandosi negli ultimi anni una contrazione nel numero dei ricoveri “rosa”. Nelle giovani donne sono le malattie a trasmissione sessuali quelle più problematiche, poiché manca un progetto organico e strutturato di educazione alla sessualità e alla contraccezione. Solo il 16% delle donne in età fertile fa uso di contraccezione ormonale. Anche le dipendenze preoccupano molto.
       Dal 2001 a oggi sono aumentate del 34% le donne che consumano alcolici fuori pasto, fenomeno in crescita nelle più giovani: le consumatrici di alcol tra i 14 e i 17 anni sono raddoppiate. Sono 400.000 le donne dipendenti dal gioco d’azzardo, tra gli adolescenti gioca il 35,8% delle ragazze. È stupefacente come il 37% delle ragazze ricorra al web per “scoprire” il sesso o addirittura per cercare un partner.
       Quanto al fumo, tra i 15 e i 24 anni fuma il 21,8% delle ragazze e circa l’87% inizia entro i 20 anni. Nell’età adulta, per quanto riguarda la salute materna, si rileva un lieve decremento nel ricorso al taglio cesareo che risulta, però, sempre ben al di sopra della media raccomandata dall’OMS e sono in netto aumento le donne che ricorrono alla fecondazione artificiale. I problemi di salute mentale, peraltro trasversali a tutte le fasce di età, sono in forte aumento e riguardano il 38% della popolazione europea, in prevalenza le donne.
Картинки по запросу donna       La depressione perinatale, in particolare, colpisce in Italia oltre 90.000 donne e risulta sottovalutata sia dalle donne sia dai medici. Dal 2007 al 2011, si è registrato un aumento dell’incidenza e della prevalenza dei tumori femminili, il che rende sempre più urgente un ulteriore potenziamento delle attività di prevenzione oncologica e di screening organizzato. Anche l’osteoporosi, che riguarda il 25% delle donne oltre i 75 anni, è in aumento: una donna su cinque dopo i 50 anni è destinata a una frattura ossea se non attua un’adeguata prevenzione fin dalle prime decadi di vita. Si registra anche un aumento nella popolazione femminile dei fattori di rischio cardiovascolare quali sovrappeso, obesità e sedentarietà.
       Evidenziare le problematiche di salute femminile contribuisce a sensibilizzare le istituzioni per una migliore pianificazione degli interventi, dei servizi e delle strategie preventive, ma ha soprattutto un ruolo fondamentale nel rendere le donne protagoniste della loro salute e sempre più consapevoli che solo una corretta informazione consente di affrontare i problemi di salute con gli strumenti migliori.
Fonte http://boxmedia.com/status-di-salute-della-donna-in-italia/