«Il bi-test, chiamato anche test di screening del primo trimestre, si esegue in generale tra l'undicesima e la quattordicesima settimana di gravidanza», spiega Faustina Lalatta, responsabile dell'Unità di genetica medica presso la Clinica Mangiagalli del Policlinico di Milano. Questa tecnica diagnostica prenatale prevede due diverse prestazioni, per questo prende il nome di bi-test. «Una, forse la più rilevante, è la misurazione mediante l'ecografia dello spessore della traslucenza nucale, cioè di un'area che si trova nella nuca del piccolo embrione e che permette di definire un'ampiezza; l'altra è un prelievo di sangue eseguito alla madre, che permette di dosare due ormoni che sono indicativi della funzione placentare», chiarisce la specialista.
A cosa serve il Bi-test?
Il test è nato per rilevare la sindrome di Down. Questo, all'esordio, era l'obiettivo principale, ma nel corso degli anni si è visto che può dare indicazioni anche su altre condizioni: come, ad esempio, le malformazioni del cuore, dello scheletro o del diaframma del feto.
Per chi è consigliato?
È nato prevalentemente per le donne giovani, ma oggi si ritiene che sia importante per qualsiasi fascia di età.
Come nasce?
Alla sua base, c'è un programma che è stato coperto da un brevetto del gruppo del dottore inglese Kypros Nicolaides. Il professore aveva compreso che mettendo insieme diversi parametri – la misurazione della translucenza nucale, l'età materna e i valori biochimici degli ormoni circolanti nella madre – si poteva avere un valore che rappresentava la probabilità che il bambino avesse la sindrome di Down.
Come funziona?
Il bi-test funziona in un modo piuttosto sofisticato. Dobbiamo immaginare che questa tecnica diagnostica sia applicata a un numero ampio di donne in gravidanza. Funziona identificando un gruppo ad alto rischio e un gruppo a basso rischio e poi il cosiddetto gruppo a rischio intermedio. Nel gruppo ad alto rischio avremo la maggior parte dei bambini che ha la sindrome di Down, ma anche circa il 5% dei cosiddetti falsi positivi. In questi casi, le donne ricevono un esame allarmante ma poi non hanno anomalie del cariotipo del feto. Nel gruppo a basso rischio, invece, avremo la maggior parte delle donne, circa l'85%, con un feto normale. Fuori da questi due macro gruppi, c'è un residuo di donne con anomalie cromosomiche fetali.
Quindi, l'attendibilità non è certo il 100%: non si tratta infatti di una diagnosi, ma uno screening. È una tecnica per separare fasce di rischio. Questo è un elemento molto importante da comprendere, ed ecco perché, dopo un allarme del bi-test, è necessaria una verifica; dopo una rassicurazione, invece, bisogna ricordarsi che questa tecnica delinea una probabilità.
Quindi, l'attendibilità non è certo il 100%: non si tratta infatti di una diagnosi, ma uno screening. È una tecnica per separare fasce di rischio. Questo è un elemento molto importante da comprendere, ed ecco perché, dopo un allarme del bi-test, è necessaria una verifica; dopo una rassicurazione, invece, bisogna ricordarsi che questa tecnica delinea una probabilità.
Cosa succede in caso di test positivo?
Innanzitutto, viene prospettato l'esame cromosomico mediante una procedura invasiva, di solito la villocentesi. Questo accade perché nella maggior parte dei casi di allarme al bi-test, effettivamente si identificano anomalie cromosomiche.
Anche in caso di esame “normale”, non bisogna fermarsi. Verranno prescritte ed eseguite ecografie di secondo livello per valutare le strutture fetali e, soprattutto, le cardiopatie eventuali. Questi esami verranno fatti a 16 e 20 settimane. Alla fine di questo percorso, rimane un piccolo rischio residuo che va spiegato alla donna. Anche se, dopo l'allarme del bi-test, tutto è andato bene, le probabilità non sono del tutto annullate.
Fonte http://www.nostrofiglio.it/gravidanza/esami/screening-prenatale-bitest
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