“Ma quando fai un figlio?”. “Perché non ne adotti uno?”. “Rassegnati, Gesù non vuole”. Ne ha sentite di tutti i colori Barbara (nome di fantasia), 44 anni, romagnola, mentre era costretta a inventare scuse al lavoro perché, per andare a fare esami, punture o monitoraggi, arrivava tardi in ufficio. Una volte si era bucata la gomma dell’auto, un’altra aveva gli imbianchini a casa. In realtà la fecondazione assistita era diventata la sua seconda vita: un’esistenza parallela, dolorosa e punteggiata di fallimenti, da non rivelare a nessuno. Barbara oggi ha un bimbo di cinque anni nato grazie all’ovodonazione effettuata in Spagna – in Italia, nel 2010, l’eterologa non era ancora consentita – e ha scelto di raccontarci la sua storia per rompere il muro del pregiudizio e far capire che calvario c’è, a volte, dietro la nascita di un figlio.
“Ho iniziato a cercare una gravidanza quando avevo 32 anni – ci dice – ma dopo sette mesi di tentativi, nulla. Visto che sapevo di avere una cisti ovarica, sono andata al consultorio per un controllo e lì, durante un’ecografia, mi hanno detto che c’è il sospetto di utero bicorne, una malformazione di cui nessun medico mi aveva mai parlato. Affranta, mi sono sottoposta a una salpingografia in un centro specializzato, dove mi hanno trovato una tuba chiusa“. Dell’utero di Barbara, però, ancora non si capisce molto. Inviata in un altro centro ancora, la donna entra in lista d’attesa per un intervento di laparascopia e isteroscopia. Ma prima di andare in sala operatoria, il primario le riscontra durante un esame una malformazione diversa da quella paventata: utero a sella, non operabile.
Quando il chirurgo la apre, trova l’indicibile: “Utero, ovaie e vesciche erano tutti attaccati, un agglomerato pieno di aderenze, solo alcune delle quali sono state asportate”. Quando Barbara si risveglia, il medico è ben poco clemente: “Davanti a mio marito e a mia suocera, mi ha chiesto come facessi a essere ridotta così, come se fosse una mia colpa. Ha aggiunto che non sarei mai riuscita a diventare mamma, se non con la fecondazione assistita”. Ma solo una volta fuori dall’ospedale, vedendo i referti ospedalieri, il ginecologo della ragazza arriva alla diagnosi: endometriosi. Malattia che Barbara non aveva mai saputo di avere, nonostante ovulazioni e mestruazioni molto dolorose.
Barbara si mette in lista per la Pma in un centro pubblico ma i tempi sono lunghissimi: due anni. Così, mentre aspetta, tenta con un centro privato. La prima fecondazione, una Fivet (quindi in vitro), nonostante una buona produzione di ovociti di cui tre fecondati, non va a buon fine. Nel frattempo, al marito della donna viene riscontrata un’oligospermia: pochi spermatozoi, oltretutto poco vitali e di basa qualità. Al secondo tentativo, questa volta un’Icsi (microiniezione dello spermatozoodirettamente all’interno dell’ovocita) si fecondano due ovociti ma le mestruazioni arrivano inesorabili prima della data del prelievo di sangue. Fino a che, depressa e demoralizzata, per Barbara arriva la chiamata dal centro pubblico, dove si sottopone a un bombardamento ormonale “massiccio ed esagerato”, prima del terzo tentativo: “Il medico, prima dell’intervento, mi ha detto che difficilmente sarebbe riuscito a prelevare ovociti, vista la mia situazione. Quando gli ho spiegato che, in caso di un nuovo fallimento, sarei ricorsa all’ovodonazione, mi ha riso in faccia. Di ovociti, alla fine, me ne ha prelevato uno. Ma non sono rimasta incinta nemmeno quella volta”.
Barbara decide allora di riprovare con il centro privato. Ma dopo il quarto tentativo, all’ennesimo arrivo delle mestruazioni dice basta. Per nulla fiduciosa in una modifica delle legge 40 che vietava l’eterologa (cioè la fecondazione con gameti esterni alla coppia), Barbara parte insieme al marito per l’IVI International spagnolo, dove dopo un’altra lunga serie di esami, viene abbinata a una donatrice affinché le loro caratteristiche somatiche, bene o male, siano simili, e dopo le terapie ormonali entra in sala operatoria per l’impianto “a fresco”, cioè con ovociti non congelati.
Quando torna in Romagna, continua a prendere ovuli e altri ormoni per favorire il concepimento. Fino al giorno delle analisi, quando ritira la busta e, in mezzo a un incrocio, indecisa se aprirla o meno visto che il marito tardava, alla fine opta per sbirciare il referto: “Le beta HCG erano a 750, un valore molto alto per il periodo. Ho chiamato mio marito, dicendogli che secondo me eravamo ‘incinti’. Dopo una settimana, abbiamo scoperto che si trattava di due gemelli. Erano passati sei anni dall’inizio della ricerca di un bambino. Finalmente ce l’avevamo fatta, dopo aver superato ostacoli fisici, psicologici e sociali di ogni tipo”. Oltre che economici, visto che solo l’ovodonazione è costata 9mila euro, spese di viaggio e soggiorno escluse.
Uno dei gemelli, poco dopo la nascita, purtroppo non ce l’ha fatta. Ma questa è un’altra storia che, chissà, forse Barbara un giorno deciderà di raccontarci.
Fonte http://www.romagnamamma.it/2016/02/il-calvario-di-barbara-come-sono-diventata-mamma-grazie-allovodonazione/
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