Si realizza inserendo un ago nell’addome e nell’utero materno fino a raggiungere la cavità amniotica dove il feto è immerso nel liquido amniotico. Mediante aspirazione si estraggono 15-20 cc di questo liquido. Questa prova viene effettuata tra la 16ª e 18ª settimana di gestazione. Assieme alla Biopsia Coriale, che abbiamo già commentato in un articolo precedente, si classificano come “prove invasive” di diagnosi prenatale.
L’amniocentesi non è una prova priva di rischi, anche se la frequenza di complicazioni è alquanto bassa. Si stima che il rischio di aborto o perdita del feto dopo l’amniocentesi è dell’ 1 % (cioè una donna su cento potrebbe soffrire un aborto). Le altre complicazioni sono la rottura prematura delle membrane e l’isoimmunizzazione Rh.
Nella maggior parte dei casi l’amniocentesi genetica viene effettuata per scartare che il feto sia affetto da sindrome di Down. Uno dei criteri classici di base per effettuare un’amniocentesi è “l’età della madre”. Dagli anni ’30 si sa che il rischio di sindrome di Down aumenta man mano che aumento l’età materna; per questo motivo fino a qualche anno fa si consigliava la realizzazione dell’amniocentesi genetica alle donne oltre i 35 anni. Ma utilizzare solo l’età materna come criterio per la realizzazione di questa prova presenta vari inconvenienti: innanzitutto, se la realizziamo solo su donne di oltre 35 anni solo diagnosticheremo il 30 % dei feti con sindrome di Down. D’altra parte, il gruppo di gestanti oltre i 35 anni è aumentato negli ultimi anni (en 1980 era il 4.5 % e nel 2007 il 14 %) e in molti casi hanno avuto problemi di concepimento e non vogliono assumere i rischi inerenti all’amniocentesi.
Per questo, negli ultimi 20 anni sono nate le cosiddette “prove di screening o screening di cromosomopatie” definite come le prove tese a identificare tra la popolazione generale di gestanti apparentemente sane quelle con maggior rischio di avere un feto portatore di un problema cromosomico. Non sono prove diagnostiche individuali, ma che permettono di selezionare le gestanti c0n rischio di alterazione cromosomica a cui si consiglia un’amniocentesi (che stabilirebbe la diagnosi definitiva).
In questi ultimi anni si sta utilizzando il cosiddetto “screening combinato del primo trimestre”. Mediante un programma informático che studia l’età de la madre, alcuni valori di due ormoni contenuti nel sangue materno, la misura ecografica della translucenza nucale del feto e l’età gestazione, si calcola il rischio teorico di sindrome di Down. La determinazione degli ormoni placentari β-HCG y PAPP-A nel sangue materno viene generalmente effettuata tra la 9ª e 12ª settimana e la translucenza nucale (che consiste nella misurazione dell’accumulo di liquido transitorio nella zona della nuca fetale), e la misura del feto tra l’11ª e la 13ª settimana. Generalmente, se il livello di rischio ottenuto supera la cifra di 1/270 si consiglia la realizzazione di un’amniocentesi genetica. Mediante lo screening combinato del primo trimestre è possibile identificare circa l’ 80-90 % dei feti con sindrome di Down.
Recentemente sono stati pubblicati articoli nella letteratura scientifica che fanno riferimento alla diagnosi della sindrome di Down mediante lo studio del DNA fetale libero nel sangue materno. Queste nuove tecniche diagnostiche non invasive (richiedono solo un prelievo del sangue della madre), anche se promettono bene, si trovano ancora in fase di sperimentazione e non si applicano nelle prassi cliniche.
Riassumendo, visto che l’amniocentesi genetica è una tecnica diagnostica che comporta determinati rischi per la gravidanza, si dovrà effettuare solo alle pazienti il cui feto presenta un elevato rischio di cromosomopatia o alterazione cromosomica.
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