venerdì 3 giugno 2016

Esplora il significato del termine: Maternità surrogata, dubbi etici


Due mesi fa il manifesto-appello di un gruppo di femministe contro la maternità surrogata non fu sufficiente ad avviare una vera discussione sul tema, forse per il timore — almeno a sinistra — che essa potesse essere d’intralcio all’approvazione della cosiddetta stepchild adoption. Fatto sta che, una volta eliminata la possibilità di adottare il figlio del partner dalla legge sulle unioni civili, proprio da sinistra sono venute serie critiche alla pratica dell’«utero in affitto». Indirettamente un ruolo importante l’ha giocato il caso Vendola, accompagnato da una diffusa sensazione che il ricorso alla maternità surrogata non possa essere ridotto a un «atto d’amore», come semplicisticamente sostenuto dal leader di Sel.
Dalla presidente della Camera Laura Boldrini all’ex segretario del Pd Pierluigi Bersani si sono dunque moltiplicate le critiche a una pratica che è accusata di ridurre a merce il corpo femminile. La senatrice Finocchiaro l’ha definita «inconcepibile», perché implica «la produzione di corpi destinati allo scambio, assai spesso economico». Parole che si configurano come un modo lessicalmente elegante per sostenere che, con essa, si finisce con l’acquistare un bambino. Per l’ex Pd Stefano Fassina il ricorso alla maternità surrogata va rifiutato poiché i diritti individuali debbono incontrare un limite e quello di avere un figlio non è un diritto. Su quest’ultimo punto — l’insussistenza del diritto ad avere un figlio — gli fa eco sull’ultimo Venerdì di Repubblica anche un’accorta interprete del mainstream progressista come Natalia Aspesi.


Insomma, si va affermando l’opinione che essere a favore del progresso non vuol dire accettare tutto quello che la scienza consente di fare, che dobbiamo dunque interrogarci sui limiti che separano ciò che è eticamente consentito da ciò che non lo è. Si tratta di interrogativi non semplici per la difficoltà, di fronte alle prospettive straordinarie ma a volte inquietanti aperte dalle tecnoscienze, di ricorrere al vecchio armamentario concettuale basato sulla distinzione tra conservatori e progressisti, tra destra e sinistra. Un tempo questa distinzione consentiva a ciascuno, con poco sforzo, di sapere sempre cosa pensare in quasi ogni campo. Oggi dobbiamo fare a meno di quella rassicurante coperta di Linus e dobbiamo imparare a discutere nel merito di certe questioni e di certe pratiche impensabili fino a pochi anni fa.
Come sta emergendo dalle non poche critiche rivolte alla maternità surrogata, il concetto chiave da cui partire è quello di denaro. Chi intraprende questa via per avere un figlio sfoglia cataloghi di «donatrici» di ovociti o di «madri per altri» (le donne che conducono la gravidanza) che ricevono un compenso, anche se spesso mascherato da rimborso spese. Nel caso della donna che si presta alla maternità surrogata gli impegni sottoscritti in un apposito contratto con i futuri genitori sono tali — dalla dieta all’aborto nel caso di malformazioni o di gravidanza gemellare — che è inverosimile pensare possano essere accettati senza un corrispettivo economico.
L’obiezione formulata da Michela Marzano, in uscita dal Pd proprio per un dissenso su questa materia, secondo la quale una donna deve esser lasciata libera di guadagnare soldi anche in questo modo, stupisce per l’inconsistenza. Per la stessa ragione si dovrebbe lasciar libero un uomo, che magari ha dei figli da mantenere, di vendere un rene; o anche un operaio di lavorare 15 ore al giorno, come avveniva un paio di secoli fa in Inghilterra. Come è evidente, è la condizione di necessità (economica) non di libertà che generalmente sta dietro la disponibilità di condurre in porto la gravidanza per conto di altri. Da questo punto di vista, il progetto di legge dell’Associazione Luca Coscioni, che propone di autorizzare la gestazione per altri solo a titolo gratuito, convince poco. Non soltanto perché, col ricorso al rimborso spese, rende possibile aggirare il vincolo della gratuità. Ma soprattutto perché affida quest’ultima a una scrittura privata tra le parti — la gestante e i futuri genitori — che ognuno comprende quale scarso valore possa avere.
L’unico caso in cui è lecito supporre, senza bisogno di poco verificabili autocertificazioni, che una donna si presti alla gestazione per altri mossa da motivi non venali è quello di colei che lo fa per una sorella o una figlia. Forse prevedere di autorizzare la maternità surrogata solo in casi del genere potrebbe essere un modo per trovare un ragionevole punto di incontro, al di là della ormai evanescente distinzione tra i sostenitori del progresso e i difensori della tradizione.

Fonte http://www.corriere.it/opinioni/16_marzo_11/maternita-surrogata-dubbi-etici-natura-economica-102e90aa-e6e5-11e5-877d-6f0788106330.shtml?refresh_ce-cp

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