All’inizio è un ovulo fecondato. Poi inizia a somigliare a una mora. Quindi diventa una sfera cava, che si impianta nell’utero una settimana dopo la fecondazione. È in questa fase, detta blastocisti, che le cellule si avviano ad assumere identità diverse. Ma proprio questo stadio cruciale dello sviluppo dell’embrione finora era rimasto come una scatola chiusa, inaccessibile allo sguardo degli scienziati. Il velo viene sollevato adesso da due lavori pubblicati sulle riviste Nature e Nature Cell Biology, che hanno riprodotto in vitro la fase dell’annidamento in utero, con un substrato artificiale al posto del grembo materno. Le sorprese non mancano, e nemmeno gli interrogativi bioetici. Innanzitutto siamo di fronte a un nuovo record. Nessuno era riuscito a coltivare degli embrioni per più di nove giorni, in genere anzi non si riusciva a superare la settimana. Ora due gruppi di ricerca, uno americano e l’altro inglese, hanno dimostrato che è possibile spingersi fino al tredicesimo giorno, e probabilmente oltre, fornendo agli embrioni il giusto ambiente chimico e una matrice adatta a cui attaccarsi.
I limiti di legge
Gli esperimenti sono stati interrotti entro le due settimane dalla fecondazione, per rispettare le linee guida internazionali che fissano un limite temporale massimo alla possibilità di fare ricerca sugli embrioni umani. Ma è bastato per scoprire che il dialogo con il corpo materno non è ancora necessario in questa fase. Gli embrioni sono capaci di auto-organizzarsi, seguendo un piano di sviluppo ordinato anche in assenza di segnali esterni, più a lungo del previsto. Un po’ come succede alle molecole d’acqua che si dispongono simmetricamente per formare i fiocchi di neve.
Gli embrioni cresciuti in provetta non sono delle riproduzioni tridimensionali perfette di quelli «naturali», ma mostrano una struttura simile con tanto di cavità amniotica e sacco vitellino. I ricercatori hanno notato anche alcune differenze inaspettate rispetto ai modelli animali, per quanto riguarda la diversificazione delle linee cellulari da cui poi dipende l’organizzazione dei tessuti. Probabilmente sono dovute al timing e alle modalità di accensione dei geni chiave.
Gli embrioni cresciuti in provetta non sono delle riproduzioni tridimensionali perfette di quelli «naturali», ma mostrano una struttura simile con tanto di cavità amniotica e sacco vitellino. I ricercatori hanno notato anche alcune differenze inaspettate rispetto ai modelli animali, per quanto riguarda la diversificazione delle linee cellulari da cui poi dipende l’organizzazione dei tessuti. Probabilmente sono dovute al timing e alle modalità di accensione dei geni chiave.
I dubbi etici
La ricerca sui topi, evidentemente, non basta per farsi un’idea precisa degli inizi della vita umana. I risultati ottenuti dal gruppo di Ali Brivanlou della Rockefeller University e da quello di Magdalena Zernicka-Goetz di Cambridge inaugurano dunque un nuovo filone di studi che potrebbe contribuire a migliorare le metodiche di riproduzione assistita, la comprensione delle cause degli aborti precoci e la coltivazione delle cellule staminali. Ma una volta rimosso l’ostacolo tecnico all’osservazione degli embrioni in fase post-impianto, ne restano altri bioetici e legali. In Italia la ricerca sugli embrioni umani è vietata per legge, ma la comunità scientifica internazionale finora ha rispettato il limite dei 14 giorni proposto nel 1979 negli Stati Uniti, abbracciato nel 1984 dalla commissione Warnock in Gran Bretagna e poi fatto proprio da altri Paesi oltre che da numerose società scientifiche.
La sfida della tecnologia
Perché proprio questo numero, quattordici? La spiegazione più accettata è che prima di questo momento l’embrione potrebbe ancora dividersi in due o fondersi, dopo acquisisce un’esistenza individuale grazie alla comparsa di una struttura detta stria primitiva. Questo però non significa che guadagni improvvisamente un diverso status morale, ha notato in un commento il bioeticista Insoo Hyun insieme con Amy Wilkerson e Josephine Johnston.
Lo spartiacque ha funzionato come strumento regolatorio per delimitare lo spazio per la ricerca scientifica all’insegna di un compromesso tra diverse sensibilità culturali e religiose. Ma è stato accettato e rispettato anche perché sembrava un limite tecnicamente invalicabile. Adesso, insomma, potrebbe essere arrivato il momento di metterlo in discussione, sostengono gli studiosi. Magari organizzando una conferenza internazionale che riunisca scienziati, giuristi e bioeticisti, propone Nature.
Lo spartiacque ha funzionato come strumento regolatorio per delimitare lo spazio per la ricerca scientifica all’insegna di un compromesso tra diverse sensibilità culturali e religiose. Ma è stato accettato e rispettato anche perché sembrava un limite tecnicamente invalicabile. Adesso, insomma, potrebbe essere arrivato il momento di metterlo in discussione, sostengono gli studiosi. Magari organizzando una conferenza internazionale che riunisca scienziati, giuristi e bioeticisti, propone Nature.
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