I giudici di Strasburgo hanno stabilito che il diritto al rispetto della vita privata (art. 8 CEDU) comprenda anche il diritto di utilizzare gli embrioni in vitro per donarli alla ricerca scientifica. La nozione di “vita privata e familiare” è talmente ampia da comprendere anche il diritto all’autodeterminazione e il diritto a decidere se diventare genitore o meno. I limiti posti dal legislatore italiano sul divieto di sperimentazione sugli embrioni sono leciti e compatibili con la Convenzione [1].
Testo: Con l’esaustiva sentenza della Camera Grande, la Corte di Strasburgo ha dato risposta al quesito giuridico posto dalla ricorrente, se ildivieto di sperimentazione sugli embrioni umani [2], sia compatibile con le disposizioni della CEDU.
Il caso. Nel 2002 una donna si sottoponeva insieme al proprio compagno ad un trattamento per la procreazione medicalmente assistita, ma gli embrioni ottenuti venivano crioconservati in attesa di essere impiantati. Nel 2003 il compagno della ricorrente moriva in un attentato dinamitardo in Iraq, mentre trasmetteva un servizio sulla guerra. Decisa a non farsi impiantare gli embrioni, la ricorrente ne chiedeva il rilascio per donarli alla ricerca scientifica sulle staminali, ma le veniva opposto rifiuto da parte della struttura ospedaliera. Ai sensi dell’art. 13, L. n. 40/2004, infatti, è vietata non solo qualsiasisperimentazione sull’embrione umano ma anche sua produzione a fini di ricerca e sperimentazione o, comunque, per scopi diversi da quelli previsti dalla legge (esclusivamente, terapeutici e diagnostici). A motivo della ritenuta violazione del diritto al rispetto della vita privata e familiare (art. 8 Cedu) e alla protezione della proprietà privata (art. 1, prot. 1, Cedu), veniva proposto ricorso contro l’Italia innanzi alla Corte EDU.
La decisione. I giudici di Strasburgo hanno attribuito al concetto di “vita privata” ampio significato, comprensivo del diritto all’autodeterminazione, di guisa che il diritto a decidere se diventare genitore o meno sarebbe anch’esso sussumibile nel diritto alla vita privata e familiare di cui all’art. 8 Cedu.
In specie, è stato accertato che l’ordinamento italiano aveva adottato disciplina coerente con il principio sopra esposto.
La Corte ha affrontato, inoltre, la delicata questione relativa allo stretto legame che si istaura tra la persona sottoposta a fecondazione in vitro e gli embrioni concepiti in questo modo. Essi contengono il patrimonio genetico dei genitori e rappresentano, conseguentemente, un elemento fondamentale della loro identità biologica, rimettendo allo Stato ogni dovere di protezione e tutela.
I limiti posti dall’Italia, che ha inteso salvaguardarne morale e dignità, sono indubbiamente compatibili con quanto sostenuto dalla Corte [3].
I giudici, infine, hanno osservato che la volontà di donare gli embrioni per la ricerca scientifica era pervenuta soltanto dalla donna, non essendo possibile in alcun modo accertare quella del defunto partner.
Sulla supposta violazione dell’art. 1, prot. 1, Cedu, la questione non doveva neppure essere sollevata, perché gli embrioni non possono essere ridotti a “beni” e, pertanto, non sono suscettibili di proprietà alcuna.
In pratica. Gli embrioni umani non costituiscono un “bene” suscettibile di proprietà alcuna e non sono brevettabili né commerciabili. È vietata, altresì, ogni sperimentazione sugli stessi e loro produzione a scopo di ricerca scientifica, salvo che per le finalità indicate espressamente dall’art. 13, L. n. 40 del 2004 (terapeutiche e diagnostiche).
Pertanto, gli embrioni umani ottenuti dal trattamento per la procreazione medicalmente assistita non possono essere rilasciati dalla struttura ospedaliera a persona interessata allo scopo di una successiva donazione per la ricerca sulle cellule staminali embrionali.
Il rifiuto alla consegna da parte dell’ente ospedaliero è conforme alla legge italiana, ritenuta compatibile con i principi sanciti dalla Cedu.
[1] CEDU, Grande Camera, sent. del 27 agosto 2015, Parrillo c. Italia.
[2] Previsto dall’art. 13, L. n. 40/2004
[3] L. n. 145/2001 che ha ratificato la Conv. di Oviedo del 1997.
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