Nuovo paradosso italiano sulla procreazione assistita. Il divieto di eterologa non c’è più, ma è un po’ come se ci fosse ancora. Perché pur essendo legale, in pratica resta piuttosto complicato accedervi. A due anni dalla sentenza della Consulta che cancella il divieto di ricorrere a gameti esterni alla coppia nella procreazione medicalmente assistita, previsto nella legge 40 del 2004, l’applicazione di queste tecniche negli ospedali pubblici è pressoché nulla. Si sono attrezzate solo tre regioni: Emilia Romagna, Toscana e Friuli Venezia Giulia. Risultato: c’è chi si rivolge alle cliniche private, dove però i costi sono almeno di 3-5 mila euro per trattamento, chi continua ad andare all’estero (come quando il divieto c’era), e chi ricorre ad internet, dove fioriscono banche del seme on-line, forum e social network per gli scambi in provetta (ma viene proposto anche il “metodo naturale”, alla faccia dei progressi scientifici).
E’ quest’ultimo sistema, lo scambio via web, il più usato dalle coppie italiane, secondo un’inchiesta condotta da Elvira Zaccari e Filippo Poltronieri della radicale Associazione Luca Coscioni, che racconta gli ostacoli burocratici, le resistenze e le difficoltà contro cui sbatte chi abbia necessità di ricorrere a queste tecniche per riuscire ad avere un figlio.
I problemi principali sono due. Il primo è di ordine burocratico: la regolamentazione è carente, di fatto manca un sistema di rimborsabilità a carico del sistema sanitario nazionale. Poco dopo la sentenza della Consulta, nel luglio 2014 la ministra della Salute Beatrice Lorenzin si era impegnata in una audizione parlamentare a inserire l’eterologa nei Lea, i livelli essenziali di assistenza, e a vincolare una quota del fondo sanitario nazionale, con l’obiettivo di “mettere regioni e centri di Pma in condizione di partire subito con l’eterologa” . L’inserimento nei Lea però non c’è stato.
A dare diretta attuazione alla sentenza ci hanno pensato le regioni, con l’approvazione qualche mese dopo del “Documento sulle problematiche relative alla fecondazione eterologa a seguito della sentenza della Corte costituzionale” che, fornendo “indirizzi operativi ed indicazioni cliniche omogenee, rende immediatamente applicabile la decisione della Corte”. Quel documento però, pur essendo stato approvato all’unanimità, non è stato recepito da tutte le regioni. Mancano Campania, Calabria, Sardegna e Basilicata. E anche dove lo è stato, ci sono casi e particolarità che lo rendono inapplicabile. In pratica, come si è detto, è possibile l’eterologa pubblica solo in tre regioni, con 500 euro di ticket ma liste d’attesa di almeno un anno – un anno e mezzo.
Al di là della burocrazia, a quanto riferiscono i medici responsabili dei reparti di ginecologia e medicina della riproduzione, il problema principale sta però nella pressoché totale assenza di donatori, e soprattutto di donatrici. Manca cioè la materia prima, gameti maschili e femminili. Luca Gianaroli, direttore scientifico di Sismer, la Società Italiana Studi di Medicina della riproduzione, spiega che tale mancanza è imputabile a diversi fattori, tra cui una scarsa cultura della donazione, la mancanza di un rimborso ed “ostacoli burocratici di tutti i tipi”. Non c’è mai stata del resto una campagna informativa sull’argomento, né esiste in Italia un rimborso spese per chi dona (in Spagna si riconoscono 30 euro per gli uomini, 800 per le donne), o la possibilità di avere la giornata lavorativa pagata (come per esempio avviene per le donazioni del sangue).
Soluzione? L’importazione di gameti ed embrioni dall’estero. Il Centro nazionale trapianti, che ne controlla il flusso, mantiene riserbo sui numeri. Per avere un’idea: secondo le cifre fornite al congresso della Società Italiana di Andrologia da Giulia Scaravelli, responsabile del registro sulla procreazione medicalmente assistita, nel primo semestre del 2015 in Italia sono arrivati 855 contenitori di cellule riproduttive congelate, 441 con liquido seminale, 315 con ovociti e 99 embrioni.
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E’ quest’ultimo sistema, lo scambio via web, il più usato dalle coppie italiane, secondo un’inchiesta condotta da Elvira Zaccari e Filippo Poltronieri della radicale Associazione Luca Coscioni, che racconta gli ostacoli burocratici, le resistenze e le difficoltà contro cui sbatte chi abbia necessità di ricorrere a queste tecniche per riuscire ad avere un figlio.
I problemi principali sono due. Il primo è di ordine burocratico: la regolamentazione è carente, di fatto manca un sistema di rimborsabilità a carico del sistema sanitario nazionale. Poco dopo la sentenza della Consulta, nel luglio 2014 la ministra della Salute Beatrice Lorenzin si era impegnata in una audizione parlamentare a inserire l’eterologa nei Lea, i livelli essenziali di assistenza, e a vincolare una quota del fondo sanitario nazionale, con l’obiettivo di “mettere regioni e centri di Pma in condizione di partire subito con l’eterologa” . L’inserimento nei Lea però non c’è stato.
A dare diretta attuazione alla sentenza ci hanno pensato le regioni, con l’approvazione qualche mese dopo del “Documento sulle problematiche relative alla fecondazione eterologa a seguito della sentenza della Corte costituzionale” che, fornendo “indirizzi operativi ed indicazioni cliniche omogenee, rende immediatamente applicabile la decisione della Corte”. Quel documento però, pur essendo stato approvato all’unanimità, non è stato recepito da tutte le regioni. Mancano Campania, Calabria, Sardegna e Basilicata. E anche dove lo è stato, ci sono casi e particolarità che lo rendono inapplicabile. In pratica, come si è detto, è possibile l’eterologa pubblica solo in tre regioni, con 500 euro di ticket ma liste d’attesa di almeno un anno – un anno e mezzo.
Al di là della burocrazia, a quanto riferiscono i medici responsabili dei reparti di ginecologia e medicina della riproduzione, il problema principale sta però nella pressoché totale assenza di donatori, e soprattutto di donatrici. Manca cioè la materia prima, gameti maschili e femminili. Luca Gianaroli, direttore scientifico di Sismer, la Società Italiana Studi di Medicina della riproduzione, spiega che tale mancanza è imputabile a diversi fattori, tra cui una scarsa cultura della donazione, la mancanza di un rimborso ed “ostacoli burocratici di tutti i tipi”. Non c’è mai stata del resto una campagna informativa sull’argomento, né esiste in Italia un rimborso spese per chi dona (in Spagna si riconoscono 30 euro per gli uomini, 800 per le donne), o la possibilità di avere la giornata lavorativa pagata (come per esempio avviene per le donazioni del sangue).
Soluzione? L’importazione di gameti ed embrioni dall’estero. Il Centro nazionale trapianti, che ne controlla il flusso, mantiene riserbo sui numeri. Per avere un’idea: secondo le cifre fornite al congresso della Società Italiana di Andrologia da Giulia Scaravelli, responsabile del registro sulla procreazione medicalmente assistita, nel primo semestre del 2015 in Italia sono arrivati 855 contenitori di cellule riproduttive congelate, 441 con liquido seminale, 315 con ovociti e 99 embrioni.
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