Fin dall’inizio il pianto dei nostri figli ha il suono di una lingua straniera, difficile da interpretare. Per quanto possa, alcune volte, sembrare indecifrabile, ci troviamo di fronte a un linguaggio universale e senza confini.
Appena nati è il loro grido alla vita, la loro conferma di esistere, di vivere, di respirare e di star bene. Può apparire strano ma è proprio piangendo che lo comunicano. Tutti strillano allo stesso modo, forse perché tutti hanno gli stessi bisogni e gli stessi desideri: cibo, calore, pulizia, le cure necessarie per la loro sopravvivenza.
Ma anche un desiderio di contatto fisico, di gioco, di dialogo e di tenerezza, importanti per imparare a vivere. Quando piangono la loro domanda non è precisa: sentono un disagio, una tensione che proviene dal loro corpo, si contorcono ed esprimono con la voce qualcosa di confuso a cui ogni mamma risponde spontaneamente, immediatamente e giustamente grazie alla sintonia che si é creata con proprio figlio durante la gravidanza.
Una vita unita per nove mesi, che ha generato una relazione esclusiva che non s’interrompe con la nascita e che continua attraverso modi ed espressioni diverse. Ha inizio così una nuova comunicazione a due, che si basa sulle domande di nostro figlio e sulle nostre risposte.
Ogni suo pianto è dettato da una ragione ed è assurdo pensare di viziare un bambino così piccolo, semplicemente consolandolo quando esprime il suo disagio. Nei primi mesi, infatti, non ha ancora una chiara percezione di sé come persona distinta dagli altri: impensabile quindi immaginare che voglia fare un dispetto o una bizza lamentandosi per niente.
Qualsiasi mamma potrebbe confermare che, anche quando il proprio figlio è sazio, pulito e al caldo nel lettino a volte lancia un messaggio con il pianto e domanda qualcosa. Spesso è infelice perché si sente solo e piangendo cerca un appiglio per uscire da quel senso d’abbandono che prova. La comparsa della madre lo aiuta a ricostruire la sua fiducia, a sentirsi capace di vivere, convinto che sia stato il suo pianto a farla materializzare.
Si tratta di un’illusione necessaria in questa sua prima fase della sua vita, in cui non riesce ancora a distinguere la sua persona dalla nostra, quando si confonde con noi, con il nostro viso, il nostro sorriso e col nostro seno. Altri però possono essere i motivi che generano il pianto: per esempio un sovraccarico di tensione, quando c’è troppa gente che lo guarda, che gli sorride..., quando è frastornato da luci, voci, rumori, da un eccesso di stimoli.
Il suo pianto diventa allora un richiamo nostalgico a ciò che ha perduto, l’utero materno, ovvero a un mondo di quiete che la madre può ricreare, per breve tempo, isolandosi con lui, lontano da tutti, in un luogo tranquillo dove può calmarsi tra le sue braccia. Il pianto però è anche un modo di dialogare con la madre.
A volte per scaricare l’ansia e calmarsi poco alla volta. Perché fargli fretta quando non smette di piangere mentre lo si coccola, gli si parla o lo si tiene in bracco? Lasciamogli tutto il tempo di cui ha bisogno per rassicurarsi e sentirsi di nuovo felice, rispettiamolo e non interferiamo, vigili e attenti a un nuovo segnale di richiamo.
Con il nostro comportamento lo aiuteremo a costruire la sua realtà più profonda, a formarsi le sue prime immagini mentali.
Fonte http://www.ilmiobaby.com/imbol/pages/canaliMioBaby/bambino/educazione/piantoPrimo.jsp
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