Ciao Mamy.
Come stai?
Ho fatto un po’ fatica, spingevo coi piedi, dal fondo della caverna dove sono stato nove mesi. Spingevo e spingevo e non sapevo: volevo uscire e volevo anche restare dentro. Sei tutta la vita che conosco. Ho la curiosità, addosso. E intanto la paura.
Dicono che tutta la vita, in fondo, è questo: curiosità e paura. Lasciare e trovare.
Io so che tutta la vita sei tu. In ogni caso.
Prima. Durante. Dopo.
Che lo sforzo che ho fatto da solo non sarebbe bastato. Che ne hai messe anche tu, di forze. E tante. Ti ho sentita gridare, la tua voce la conosco bene quanto la tua carne. Tu da lì fuori, io da qui dentro. Siamo una buona squadra.
Non vedo. Io fiuto. Come si fiuta una cosa bella che sta per arrivare. Come una promessa. Tu sei la mia.
Però avverto il bagliore, digli di abbassare un po’ le luci, a quelli che girano qui intorno. Tu diglielo, che sei la stella di questa notte e tutto il cielo di domani.
Poi chiedi di parlare piano. Io piango, ma la mia voce è sottile, è come il filo dei bachi da seta. Perché non voglio spaventarti. Ho pensato che forse già ti ho un po’ colta di sorpresa arrivando così, con tanto dolore. Che forse la mia faccia te l’aspettavi più colorita e invece ho ancora questa maschera di vernice caseosa. Sembra un po’ quelle di bellezza che ti facevi quando non c’ero ancora. A proposito: ti prometto che tornerai a farle. Ti lascerò un po’ di tempo, un giorno. Credimi.
Ma tu adesso: sei il mio tempo.
Magari invece sei solo trasalita trovandomi sfacciatamente bello. Perché in questo nostro viaggio la natura di miracoli ne fa uno dopo l’altro, e adesso io non vedo, ma nemmeno tu vedi: tu mi trovi irresistibile.
Tienimi vicino a quel bussare che conosco, al suo tip tap. Posa bene le mie piccole orecchie ancora molli, e poi lascia che io mi rannicchi, lasciami in quella forma come un pugnetto.
Non avere fretta. Se posso chiederti una cosa (“un’altra?” dirai…), non avere fretta. Un giorno guarderai indietro e ti chiederai dove sia finito tutto quel tempo che sembrava tanto lento.
Chiedi a papà quel tuo lucidalabbra, sai quello che mettevi ogni volta che andavi a vedermi in un’ecografia? Bene, fattelo portare: sarai ancora più bella. Chiedigli anche di chiamare tutto il mondo, ma di lasciarci soli. Tu e io. E poi basta. Non mi serve altro. E poi basta: un po’ di lui accanto.
Che ti sistemi i cuscini e ti dica sei bravissima, perché io non so ancora dirlo, e quella smorfia che mi viene quando cerco il seno tu non l’hai ancora capito che è il mio omaggio alla tua meraviglia. Che spenga il telefono e che cambi l’acqua ai fiori. E poi sieda con noi. Non serve altro.
Fra qualche giorno andremo via. Saremo a casa. Anche a questo proposito c’è qualcosa che vorrei dirti, spero tu non ti offenda: non voglio andare in quella stanza con i muri dipinti e un posto che chiamano culla. Non m’interessa quanti gingilli hai appeso, anche se l’hai fatto con infinito amore. A me interessa l’amore.
Non mi interessano nemmeno cento vestiti e tutte quelle tutine. È la tua pelle il mio mantello. Sei la mia origine. La mia destinazione.
Anche se tremi per la fatica e per il sonno. Come tremo io.
Anche se non sai da che parte si comincia a fare la mamma. Come io non so da che parte s’inizia a fare il figlio.
Anche se perderai mille volte la pazienza. E mille e uno – ti prometto – te la restituirò.
Anche se hai paura. Ne ho anch’io.
Siamo l’origine uno dell’altra. E cominceremo per sempre.
Come stai?
Ho fatto un po’ fatica, spingevo coi piedi, dal fondo della caverna dove sono stato nove mesi. Spingevo e spingevo e non sapevo: volevo uscire e volevo anche restare dentro. Sei tutta la vita che conosco. Ho la curiosità, addosso. E intanto la paura.
Dicono che tutta la vita, in fondo, è questo: curiosità e paura. Lasciare e trovare.
Io so che tutta la vita sei tu. In ogni caso.
Prima. Durante. Dopo.
Che lo sforzo che ho fatto da solo non sarebbe bastato. Che ne hai messe anche tu, di forze. E tante. Ti ho sentita gridare, la tua voce la conosco bene quanto la tua carne. Tu da lì fuori, io da qui dentro. Siamo una buona squadra.
Non vedo. Io fiuto. Come si fiuta una cosa bella che sta per arrivare. Come una promessa. Tu sei la mia.
Però avverto il bagliore, digli di abbassare un po’ le luci, a quelli che girano qui intorno. Tu diglielo, che sei la stella di questa notte e tutto il cielo di domani.
Poi chiedi di parlare piano. Io piango, ma la mia voce è sottile, è come il filo dei bachi da seta. Perché non voglio spaventarti. Ho pensato che forse già ti ho un po’ colta di sorpresa arrivando così, con tanto dolore. Che forse la mia faccia te l’aspettavi più colorita e invece ho ancora questa maschera di vernice caseosa. Sembra un po’ quelle di bellezza che ti facevi quando non c’ero ancora. A proposito: ti prometto che tornerai a farle. Ti lascerò un po’ di tempo, un giorno. Credimi.
Ma tu adesso: sei il mio tempo.
Magari invece sei solo trasalita trovandomi sfacciatamente bello. Perché in questo nostro viaggio la natura di miracoli ne fa uno dopo l’altro, e adesso io non vedo, ma nemmeno tu vedi: tu mi trovi irresistibile.
Tienimi vicino a quel bussare che conosco, al suo tip tap. Posa bene le mie piccole orecchie ancora molli, e poi lascia che io mi rannicchi, lasciami in quella forma come un pugnetto.
Non avere fretta. Se posso chiederti una cosa (“un’altra?” dirai…), non avere fretta. Un giorno guarderai indietro e ti chiederai dove sia finito tutto quel tempo che sembrava tanto lento.
Chiedi a papà quel tuo lucidalabbra, sai quello che mettevi ogni volta che andavi a vedermi in un’ecografia? Bene, fattelo portare: sarai ancora più bella. Chiedigli anche di chiamare tutto il mondo, ma di lasciarci soli. Tu e io. E poi basta. Non mi serve altro. E poi basta: un po’ di lui accanto.
Che ti sistemi i cuscini e ti dica sei bravissima, perché io non so ancora dirlo, e quella smorfia che mi viene quando cerco il seno tu non l’hai ancora capito che è il mio omaggio alla tua meraviglia. Che spenga il telefono e che cambi l’acqua ai fiori. E poi sieda con noi. Non serve altro.
Fra qualche giorno andremo via. Saremo a casa. Anche a questo proposito c’è qualcosa che vorrei dirti, spero tu non ti offenda: non voglio andare in quella stanza con i muri dipinti e un posto che chiamano culla. Non m’interessa quanti gingilli hai appeso, anche se l’hai fatto con infinito amore. A me interessa l’amore.
Non mi interessano nemmeno cento vestiti e tutte quelle tutine. È la tua pelle il mio mantello. Sei la mia origine. La mia destinazione.
Anche se tremi per la fatica e per il sonno. Come tremo io.
Anche se non sai da che parte si comincia a fare la mamma. Come io non so da che parte s’inizia a fare il figlio.
Anche se perderai mille volte la pazienza. E mille e uno – ti prometto – te la restituirò.
Anche se hai paura. Ne ho anch’io.
Siamo l’origine uno dell’altra. E cominceremo per sempre.
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