Riscaldamento globale: fertilità in pericolo
Un argomento “caldo” in tutti i sensi è stato quello del rapporto tra temperatura – sia ambientale, sia corporea – e fertilità maschile. Sulla membrana degli spermatozoi è infatti presente un recettore che si attiva in presenza di calore, determinando i meccanismi necessari per la fecondazione dell’ovocita. Curiosamente questo recettore, chiamato TRPV1, viene attivato anche dalla capsaicina, la sostanza che determina il gusto piccante del peperoncino.
Esperimenti condotti presso l’Unità di Andrologia e Medicina della Riproduzione dell’A.O. Università di Padova, diretta dal Prof. Carlo Foresta hanno dimostrato che la temperatura di 37,2 gradi, che si verifica nella fase ovulatoria nell’apparato riproduttivo femminile, esercita una forte attrazione sugli spermatozoi. Questo meccanismo è però molto delicato, e variazioni anomale della temperatura, sia ambientale, sia legate a patologie (febbre, obesità, varicocele, ecc.), possono indurre infertilità.
Un aspetto correlato riguarda il testicolo, che deve mantenere una temperatura di circa 2 gradi più bassa di quella corporea per funzionare correttamente, pena una ridotta produzione di spermatozoi. Basti pensare che soggetti che fanno spesso saune vedono dimezzata in 3 mesi la loro produzione spermatica, ed essa ritorna normale soltanto dopo 6 mesi dalla sospensione dei trattamenti.
I dati provenienti dai centri CECOS, che gestiscono a livello internazionale le banche per i donatori di seme, dicono chenegli ultimi 15 anni il numero, la vitalità e la mobilità degli spermatozoi è molto diminuita, parallelamente all’aumento globale della temperatura.
In base a dati su scala regionale, emerge inoltre che i concepimenti nei 9 mesi successivi ai periodi più caldi – giugno, luglio, agosto – risultano molto inferiori alla media.
PMA e percentuale di successo
Tra i diversi fattori che determinano il successo delle tecniche di procreazione medicalmente assistita (PMA), un ruolo importante è rivestito dalla qualità degli spermatozoi utilizzati per la fecondazione in vitro.
Fino a non molto tempo fa si pensava che la fecondazione in vitro, potesse “superare” il problema dell’ipofertilità, ma da qualche anno è emerso chiaramente che le basse percentuali di successo delle tecniche più complesse di PMA sono dovute principalmente alla scarsa qualità di ovociti e spermatozoi.
Nello specifico, la normalità del nucleo dello spermatozoo è fondamentale affinché si sviluppi un embrione senza anomalie genetiche che sia in grado di dare origine ad una gravidanza.
Nello specifico, la normalità del nucleo dello spermatozoo è fondamentale affinché si sviluppi un embrione senza anomalie genetiche che sia in grado di dare origine ad una gravidanza.
Partendo da queste considerazioni, al Centro di Andrologia e Medicina della Riproduzione Umana dell’A.O. – Università di Padova, diretto dal Prof. Carlo Foresta, abbiamo messo a punto una nuova tecnica in grado di predire il successo della fecondazione assistita, basata sulla valutazione del DNA degli spermatozoi. Si tratta di una tecnica molto selettiva, in grado di individuare quando tutti e due i filamenti del DNA sono alterati, con la quale abbiamo chiarito che questo genere di alterazione è determinante nel fallimento del processo di fertilizzazione dell’ovocita.
I soggetti che concepiscono naturalmente hanno una percentuale di questa alterazione inferiore al 5%, mentre nei soggetti infertili per alterazioni testicolari risulta mediamente superiore al 20%. Quando meno del 13% degli spermatozoi presenta rotture della doppia elica, i soggetti candidati a PMA hannoelevate probabilità di concepimento.
Conoscere questi dati ci aiuta su un doppio fronte: nella relazione con il paziente, fornendogli parametri predittivi affidabili, e soprattutto offrendoci la possibilità di capire quali soggetti necessitino di una terapia per aumentare le possibilità di successo. Il trattamento con l’ormone FSH è in grado infatti, non solo migliorare la qualità del liquido seminale, ma anche di ridurre la percentuale della doppia frammentazione del DNA spermatico.
Disfunzione erettile: rischio diabete e infarto
3 milioni di uomini in Italia soffrono di disfunzione erettile, ma di questi solo una piccola minoranza si rivolge a uno Specialista per affrontare il problema che causa il sintomo.
La disfunzione erettile può infatti rappresentare il primo campanello d’allarme di diverse patologie, quali cardiopatie, ipertensione, diabete, aterosclerosi, obesità e sindrome metabolica, perché i meccanismi che regolano l’erezione sono molto sensibili alle alterazioni vascolari e metaboliche che caratterizzano queste malattie.
Nel corso del Convegno di Abano è stato perciò affrontato il tema da un punto di vista interdisciplinare, sottolineando che il significato clinico, diagnostico e terapeutico della disfunzione erettile è molto complesso, e va approfondito conun approccio trasversale da parte di Specialisti Andrologi, Cardiologi e Diabetologi. Se la disfunzione erettile non dipende da problemi emotivi, ormonali o neurologici, ma coinvolge una causa vascolare, significa che i pazienti sono più esposti a problemi cardiaci: la percentuale di soggetti con disturbi dell’erezione su base vascolare, nel 65% dei casi ha anche il diabete, e nel 72% ha un problema cardiaco.
Questo significa che, quando alla base delle disfunzione erettile si riscontra un problema vascolare, il primo passo è effettuare controlli metabolici e alla funzionalità cardiaca, per poter intervenire tempestivamente. Occuparsi solo del sintomo, cioè dell’incapacità di mantenere l’erezione, sarebbe superficiale e pericoloso.
La partecipazione del gruppo di esperti al Convegno ha quindi portato all’impostazione di linee guida specifiche, su come ogni singolo Specialista si deve comportare di fronte a un paziente con disfunzione erettile su base vascolare.
Nessun commento:
Posta un commento