Il Millennium Cohort Study, in poche parole, mira a riconsiderare con più attenzione i risultati di quegli studi che hanno portato a correlare l’età della madre al maggior rischio di malattie genetiche o deficit cognitivi nei figli. Il campione utilizzato da questo studio è piuttosto ampio: ben 18mila bambini britannici. La ricerca coordinata da Alice Goisis impone quindi più attenzione nel prendere in considerazione i dati tradizionalmente accettati come dogma. Insomma, avere figli dopo i trent’anni non significherebbe categoricamente esporre i nascituri a dei rischi: anzi, spiega la ricercatrice, le donne ultra-trentenni sarebbero più attente ai loro figli e al loro sviluppo cognitivo per diversi motivi. Innanzitutto le donne più “mature” sono mediamente più istruite, economicamente indipendenti e con una relazione stabile.
Generalmente seguono stili di vita più sani ed equilibrati, per esempio fumano di meno e mangiano meglio. Inoltre, se tendono a giocare di meno con i bambini, pare leggano loro di più. Non c’è quindi da stupirsi se il punteggio dei test cognitivi di questi bambini sia più alto rispetto a quello dei loro coetanei nati da madri più giovani. In fin dei conti, il Millennium Cohort Study mira solamente a giustificare quali possano essere gli effetti positivi di una gravidanza portata avanti da una donna di trent’anni in un paese come il Regno Unito, dove l’età media delle madri è cresciuta vertiginosamente dai 25 anni ai 28 anni. Se è comunque presto per trarre conclusioni, questo studio offre interessanti spunti di riflessione rispetto all’annosa questione su quale sia l’età giusta per mettere al mondo un bambino.
Fonte http://www.tandfonline.com/doi/abs/10.1080/19485565.2014.1001887?journalCode=hsbi20&
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