Si tratta del procedimento intentato presso quel Tribunale da una coppia di coniugi che si era sottoposta a un trattamento di procreazione medicalmente assistita, e che avrebbe voluto destinare ad attività medico-diagnostiche e di ricerca scientifica -connesse alla patologia da cui la stessa coppia è affetta- 9 embrioni risultati "non impiantabili", oltre ad un ulteriore embrione trasferibile in utero ancorché di media qualità (tanto che la gravidanza conseguente al suo impianto non è andata a buon fine).
Le parti della legge n. 40 del 2004 della cui costituzionalità il Tribunale di Firenze dubitava sono quelle riguardanti l'impossibilità di revoca del consenso al trattamento in seguito alla fecondazione dell'ovocita (articolo 6, comma 3), e l'impossibilità di destinare alla ricerca scientifica i cosiddetti "embrioni soprannumerari" (articolo 13, commi 1-3), impossibilità quest'ultima contro la quale i ricorrenti invocavano il principio della tutela della salute come diritto fondamentale dell'individuo e interesse della collettività.
La Corte ha dichiarato inammissibili entrambe le questioni, per ragioni diverse.
Con riferimento a quella rivolta nei confronti dell'art. 6, comma 3, ult. cpv., ha ritenuto che difettava il requisito della rilevanza, siccome prospettato in via meramente ipotetica, dal momento che la genitrice aveva già accettato di farsi impiantare l'unico embrione sano e di procedere, quindi, nel trattamento di PMA (ancorché, poi, conclusosi con esito negativo), mentre la sola manifestazione di volontà di volersi sottoporre ad un nuovo trattamento non avrebbe potuto determinare l'attualità della questione della revoca del consenso nell'ambito del giudizio principale.
Nella sentenza si sottolinea peraltro come lo stesso Tribunale di Firenze dia atto del fatto che il divieto di revoca del consenso all'impianto è sprovvisto di sanzione per l'ipotesi di sua violazione e che detto consenso sia comunque revocabile nei casi in cui il medico rilevi fondati rischi per la salute della donna nel procedere all'impianto degli embrioni prodotti.
Con riguardo, invece, alla questione riferita all'art. 13 (commi 1-3), la Corte ha individuato un percorso argomentativo più ampio e problematico, in quanto attinente al delicato conflitto – intriso di implicazioni oltre che giuridiche anche etiche – tra il diritto della scienza (ed i possibili vantaggi ritraibili dalla ricerca ad essa connessi) e il diritto dell'embrione, in considerazione del profilo della tutela ad esso attribuibile, anche in relazione al (più o meno ampio) grado di soggettività e di dignità antropologica allo stesso riconoscibile.
Prima di pervenire all'esplicazione delle ragioni della soluzione conducente all'inammissibilità della questione, la Corte ha posto in risalto come, alla stregua della giurisprudenza sviluppatasi intorno alla Legge n. 40 del 2004, sia emerso come la dignità dell'embrione (quale entità contenente in sé il principio della vita) costituisca – ai sensi dell'art. 2 Cost. − un valore di rilievo costituzionale e come la sua tutela non sia suscettibile di affievolimento per la sola circostanza di risultare affetto da malformazioni genetiche, pur essendo assoggettabile a bilanciamento con altri valori costituzionali, specie al fine di garantire il soddisfacimento delle esigenze della procreazione e di quelle della salute della donna.
Ha sottolineato, poi, la Corte costituzionale come la stessa Corte europea dei diritti dell'uomo – nella sentenza della Grande Chambre del 27 agosto 2015 (Parrillo c. Italia) – avesse confermato tale principio, chiarendo, peraltro, che l'Italia non era l'unico Stato membro del Consiglio d'Europa a vietare la donazione di embrioni umani per destinarli alla ricerca scientifica, così ritenendo che il nostro Governo non avesse ecceduto l'ampio margine di discrezionalità di cui godeva nel caso di specie.
Quindi, dopo aver sinteticamente esposto le ragioni delle molteplici (contrapposte) tesi dottrinarie e scientifiche favorevoli o contrarie all'utilizzazione degli embrioni umani “non impiantabili” per fini di ricerca scientifica, la Corte ha concluso che la scelta (così ampiamente divisiva e da taluno definita “tragica”) tra il rispetto del principio della vita (che si racchiude nell'embrione ove pur affetto da patologia) e le esigenze della ricerca scientifica ha contenuti di così “elevata discrezionalità” che la sottraggono, per ciò stesso, al sindacato di legittimità, riservandola all'area degli interventi che solo al legislatore competono, tenendo conto degli orientamenti e delle istanze che, su un tema così sensibile, apprezzi come maggiormente radicati, nel momento dato, nella coscienza sociale di cui è tenuto a farsi interprete.
Ciò che, del resto, è avvenuto in tutti quegli Stati europei che, come ricordato dalla Corte di Strasburgo, «hanno adottato un approccio permissivo» nei confronti della ricerca sulle cellule embrionali, nei quali ad una siffatta opzione si è addivenuti sempre e soltanto per via legislativa.
Per di più, una diversa ponderazione dei valori in conflitto, nella direzione, auspicata dal rimettente, di una maggiore apertura alle esigenze della collettività correlate alle prospettive della ricerca scientifica, non potrebbe comunque introdursi nel tessuto normativo per via di un intervento additivo da parte della Corte, poiché un tale intervento non avrebbe uno sbocco obbligato, ma dovrebbe viceversa misurarsi con una serie di molteplici opzioni inevitabilmente riservate anch'esse al legislatore. Al quale soltanto spetta la valutazione di opportunità (sulla base anche delle “evidenze scientifiche” e del loro raggiunto grado di condivisione a livello sovranazionale) in ordine, tra l'altro, alla utilizzazione, a fini di ricerca, dei soli embrioni affetti da malattia – e da quali malattie – ovvero anche di quelli scientificamente “non biopsabili”; alla selezione degli obiettivi e delle specifiche finalità della ricerca suscettibili di giustificare il “sacrificio” dell'embrione; alla eventualità, ed alla determinazione della durata, di un previo periodo di crioconservazione; alla opportunità o meno di un successivo interpello della coppia, o della donna, che ne verifichi la confermata volontà di abbandono dell'embrione e di sua destinazione alla sperimentazione; alle cautele più idonee ad evitare la “commercializzazione” degli embrioni residui.
Fonte: Corte Costituzionale, comunicato del 13.4.2016
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