giovedì 3 dicembre 2015

Embrioriduzione: Uccidiamo un gemello su tre per tutelare la “depressione” delle mamme

       
È questo il termine tecnico usato per celare quello più crudo e meno presentabile di aborto selettivo. Un concetto capace di rievocare le agghiaccianti profezie che il genio cristiano di G. K. Chesterton, nel 1922, rassegnò nel suo celebre saggio Eugenics and other evils.

       Si tratta della riduzione degli embrioni, generalmente effettuata nel primo trimestre di una gravidanza gemellare, eseguita iniettando cloruro di potassio nel cuore del feto da eliminare, così da procurarne l’arresto cardiaco, oppure occludendone il cordone ombelicale, ad esempio con il laser, in modo da bloccare l’afflusso di ossigeno. La scelta è tra far morire l’embrione soffocato o ucciderlo con un’iniezione letale. 

       Questa drammatica questione è tornata alla ribalta delle cronache a seguito degli episodi segnalati nell’interessante articolo di Gaetano Calabrese sulla Stampa del 23 ottobre 2009, dall’efficace titolo “Uno dei tre non deve nascere”. Si racconta del caso di almeno quattro future mamme sottoposte, nell’ultimo anno, a fecondazione assistita che hanno deciso di selezionare i loro feti, facendo venire al mondo soltanto due dei figli di una gravidanza trigemellare.
       La vicenda si è svolta presso l’Ospedale Ostetrico Ginecologico Sant’Anna di Torino, quello, tanto per intenderci, dove esercita il dott. Silvio Viale, medico ed esponente politico radicale, noto per le sue battaglie pro-choice.
       La scelta degli embrioni da eliminare – essendo tutti sani – non è stata, in realtà, casuale, lasciata, cioè, all’alea di una tragica roulette russa. Calabrese spiega bene, nel suo articolo, quali sono i criteri di scelta che normalmente vengono adottati: «Quello che viene soppresso è in genere il feto più facilmente raggiungibile con l’ago di una siringa che inietta nel cuore cloruro di potassio: un metodo rapido, che nel giro di pochi secondi ferma il battito. Oppure si sceglie il più piccolo dei tre, dopo un’ecografia. Si adotta una tecnica simile a quella utilizzata per l’amniocentesi, ma in questo caso la siringa e l’ago non prelevano liquido amniotico per essere analizzato alla ricerca di eventuali malformazioni. L’iniezione intra-cardiaca ferma all’istante lo sviluppo di uno dei tre feti».
       Per tutti coloro che non sono addentro all’intricato ginepraio della legislazione italiana su tali delicate materie, è necessaria una precisazione.

       La tanto controversa legge 19 febbraio 2004 n.40 sulla procreazione medicalmente assistita – sottoposta anche al vaglio di una consultazione referendaria –, al quarto comma dell’art.14, in realtà, vieta espressamente «la riduzione embrionaria di gravidanze plurime».
Sorge allora la domanda di come sia stato possibile procedere agli aborti selettivi raccontati da Calabrese.
       La risposta sta nell’ultimo inciso del citato art.14, quarto comma: «salvo nei casi previsti dalla legge 22 maggio 1978, n. 194», ovvero la vigente legge sull’interruzione volontaria della gravidanza.
       E proprio qui sta il punto. L’art. 4 della 194 consente il ricorso all’aborto, nei modi e termini stabiliti dalla legge, ogniqualvolta sussista un «serio pericolo per la salute fisica e psichica» della donna.
Per le puerpere del Sant’Anna, quindi, è stato sufficiente reperire una perizia medica psichiatrica in cui venisse evidenziato che la «gravidanza trigemellare rappresenta un grave pericolo per la salute psichica della futura madre». È bastato, come ha ricordato Calabrese, una semplice minaccia di depressione. A nulla rilevando, peraltro, il fatto che tutti e tre i nascituri fossero perfettamente sani.
       Dopo un’iniziale perplessità da parte delle strutture sanitarie (solo il Sant’Anna di Torino non ha mai avuto dubbi di sorta), e l’immancabile incursione della magistratura (basta ricordare il decreto d’urgenza emesso, nel giugno del 2004, dalla dottoressa Emanuela Cugusi, giudice della sezione Persone e famiglia del Tribunale civile di Cagliari, con il quale è stata imposta al dott. Giovanni Monni, primario del Servizio di Ostetricia e Ginecologia dell'Ospedale Microcitemico del capoluogo sardo, l’esecuzione di un’embrioriduzione), questa sembra ormai l’interpretazione dominante: la Legge 194 prevale sulla Legge 40, anche per quanto riguarda la riduzione embrionaria. E, ancora una volta, qui sta il punto.
       Nonostante tutti gli strenui difensori della legge sull’interruzione della gravidanza, compresi quelli in buona fede, il concetto di «salute psichica» della donna rappresenta, in realtà, un enorme calderone capace di contenere di tutto. Attraverso quel criterio, tanto generico quanto indefinibile, possono passare le peggiori aberrazioni eugenetiche alla Marie Stopes, il più sfrenato individualismo, il capriccio sulla scelta di un sesso particolare del nascituro, persino, in teoria, una sadica crudeltà.

       Ancora una volta bisogna ribadire che oggi in Italia, nonostante la petizione di principi della Legge 194, vige una piena applicazione del concetto di autodeterminazione della donna: in realtà, nessuno può impedire ad una donna maggiorenne non interdetta di abortire se essa lo vuole, qualunque siano i motivi della sua richiesta.
       Fuori da ogni ipocrisia, bisogna ammettere che il nostro ordinamento giuridico riconosce ad un essere umano (la madre) il diritto assoluto di vita e di morte su un altro essere umano (il nascituro).
In quest’ottica si inserisce l’embrioriduzione, e l’episodio del Sant’Anna rende ancora più evidente tale principio. Posto, infatti, che gli embrioni da sacrificare erano perfettamente sani, non si è trattato in realtà di un’operazione eugenetica, ma soltanto del puro esercizio del diritto individuale della donna, della realizzazione di un mero desiderio soggettivo. La quintessenza del principio di autodeterminazione.
       Tutto ciò, peraltro, ad onta di quanto stabilito, all’unanimità, dal Comitato Nazionale di Bioetica nel documento «Identità e Statuto dell’embrione umano» approvato il 22 giugno 1996, al cui punto 10 si legge: «Il Comitato è pervenuto unanimemente a riconoscere il dovere morale di trattare l'embrione umano, sin dalla fecondazione, secondo i criteri di rispetto e tutela che si devono adottare nei confronti degli individui umani a cui si attribuisce comunemente la caratteristica di persone, e ciò a prescindere dal fatto che all'embrione venga attribuita sin dall'inizio con certezza la caratteristica di persona nel suo senso tecnicamente filosofico, oppure che tale caratteristica sia ritenuta attribuibile soltanto con un elevato grado di plausibilità, oppure che si preferisca non utilizzare il concetto tecnico di persona e riferirsi soltanto a quell'appartenenza alla specie umana che non può essere contestata all'embrione sin dai primi istanti e non subisce alterazioni durante il suo successivo sviluppo».
       Si tratta degli stessi embrioni sottoposti a procedura di “riduzione” presso l’Ospedale Sant’Anna di Torino?
Due corollari alle considerazioni suesposte.

       Uno è legato al rischio (variabile da 5 all’8%) che la procedura di embrioriduzione determini, come effetto involontario, la soppressione di tutti i feti. L’esistenza di tale rischio è stata confermata dal fatto che una delle quattro mamme che si è sottoposta all’embrioriduzione presso l’Ospedale Sant’Anna, ha perso tutti i gemelli, in seguito alla rottura delle membrane. Anche sulle percentuali di rischio c’è qualcosa da dire. Come ha spiegato Claudio Giorlandino, presidente della SIDIP (Società italiana di diagnosi prenatale e medicina materno-fetale) «nel feticidio selettivo gli errori sono possibili e, nella maggior parte dei casi, non se ne ha notizia per la delicatezza delle vicende umane che si accompagnano e per l'impossibilità di arrivare a un contenzioso legale in considerazione del fatto che le donne sono ben informate, prima di sottoporvisi, e sottoscrivono un pieno consenso informato. Tale prassi, e tali errori, sono tecnicamente possibili e diffusi in tutto il mondo».

       Il secondo corollario riguarda l’incredibile perplessità avanzata sulla vicenda da alcuni medici abortisti dello stesso ospedale Sant’Anna. Calabrese ne riporta alcune dichiarazioni nel suo articolo: «Ma in questo caso – dicono – siamo di fronte a tutt’altra questione: donne che hanno fatto di tutto per diventare madri, che hanno speso denaro ed energie fisiche ed emotive, decidono di sopprimere una vita diventata improvvisamente di troppo». Così spiegano perché sono a favore dell’aborto ma contro l’embrioriduzione.

       Non si comprende, in realtà, se l’atteggiamento di questi esimi medici – che non hanno optato per l’obiezione di coscienza – sia dettato più da una velata forma di ipocrisia che da un evidente schizofrenia morale.

       Un feticidio resta tale, indipendentemente dalle modalità con cui viene eseguito (aborto chirurgico, siringa letale, occlusione del cordone ombelicale, pillola RU486) e, soprattutto, a prescindere dalle personali motivazioni della madre.

       Così come un infanticidio resta tale a prescindere dalle modalità di esecuzione del reato e dalle recondite ragioni che spingono il colpevole. Non è un caso, tra l’altro, che proprio una delle mamme che si è sottoposta ad embrioriduzione, dopo l’operazione e in preda al rimorso, si sia rivolta alla dottoressa Sara Randaccio, psicologa e psicoterapeuta del Sant’Anna, in questi termini: «Dottoressa, mi sento come la Franzoni».

       La soppressione di un feto resta oggettivamente ed intrinsecamente un atto immorale, senza possibilità di distinguo circa i motivi che inducono a compierla. Questo vale per tutti, ma a maggior ragione per un medico abortista che pretenda un criterio differenziale nella soppressione degli embrioni. Quasi che alcuni di essi abbiano più diritto a vivere di altri. Introdurre una distinzione in questo senso, significa cadere nell’incoerenza morale.

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