Le ragioni che si agitano attorno al «cimitero dei feti» si muovono su un terreno fangoso in cui la vita e la morte si intrecciano.
Sono sepolti qui a due passi dal Monumentale quelli arrivati alla 20a
settimana di gravidanza e non oltre la 28aUna decisione presa dopo test ed ecografie che provano che il cuoricino non batte più. Oppure dopo la conferma riguardo alla presenza di una malformazione che in caso di nascita impedirebbe un’esistenza normale. Nel secondo trimestre di gravidanza non c’è altra ragione, se non un aborto spontaneo, perché una donna decida un’interruzione di gravidanza.
Il caso eccezionale
Scegliere cosa fare dopo, non lo è altrettanto terribile: tumulare o cremare. Ma ad un certo punto dovrebbe intervenire la legge ad aiutare, a districare. Nel caso dei «cimiteri per feti», invece, complica. Non tanto la legislazione nazionale, che traccia un binario dentro il quale Regioni e Comuni legiferano per sé, quanto l’anomalia torinese. Torino ha fatto una scelta individuale, nel 2002, che mette in crisi il diritto alla privacy delle donne. E riapre ferite.
A normare la questione è una legge modificata nel 1990 che rende possibile tumulare embrioni e feti di qualsiasi settimana sia per chi «mostra» che per chi non «mostra interesse». La legge definisce così il sentimento di chi si allontana mentalmente e fisicamente dall’aborto. Per chi non «mostra interesse», nelle ore successive all’intervento, la stragrande maggioranza dei Comuni italiani, in pratica tutti, prevede una tumulazione d’ufficio, dietro autorizzazione delle asl, in fosse comuni oppure la cremazione. I costi sono a carico degli ospedali o delle amministrazioni.
L’origine della legge
A Torino si fa di più. Ogni feto viene tumulato singolarmente. A deciderlo una circolare dell’assessorato alle Politiche sociali e sanitarie del 2002. Una novità che prevede per ogni feto, una tomba e una lapide su cui è scritto il cognome dei genitori. Diverso, sarebbe, probabilmente, se in un unico luogo «riposassero», tutti i feti.
Così i feti abortiti, circa 160 all’anno, che arrivano per larga parte dall’Ospedale Sant’Anna - un centinaio - raggiungono il Monumentale in piccole cassette. Contrassegnate da nome e cognome della madre o del padre, nonostante l’ospedale tenti di tutelare la privacy delle famiglie: «Nel 2013 - spiega Grace Rabacchi, direttore sanitario del Sant’Anna - abbiamo adottato un regolamento che stabilisce che non debbano esserci elementi di riconoscimento. Abbiamo pensato a numeri perché la legge sull’aborto tutela l’identità della donna».
Forse l’intoppo è nella gestione cimiteriale: è evidente che frammenti minimi di identificazione debbano esserci. Un ospedale non può consegnare materiale da tumulare così, con un numero e basta. E allora, a quel punto, è il Cimitero che non dovrebbe scriverli sulle lapidi. Fatto sta che, oggi, ci sono nomi e cognomi sulle tombe comunali di feti e bimbi nati morti anche nel 2013, 2014, 2015. Resteranno lì per 5 anni. Poi il cimitero chiamerà le famiglie per capire cosa intendono fare dei resti. Lo hanno già fatto. Hanno già chiamato donne per avvertirle dell’esumazione imminente. Donne che pensavano di aver dimenticato. Ma che hanno scoperto, in quel momento, che il loro piccolo progetto di vita, volato via troppo presto, era stato sepolto per anni senza averlo nemmeno saputo.
Fonte http://www.lastampa.it/2015/04/12/cronaca/cosa-succede-ai-bimbi-mai-nati-i0Jj1CmK9vmounEXnADI9N/pagina.html
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