giovedì 31 dicembre 2015

The Queen father, papà e marito gay ci racconta la sua storia

        È logico che vivere a Londra ha influito enormemente sul mio processo decisionale ed emotivo. Immaginate forse che io avrei potuto fare lo stesso vivendo in Italia?
        E non credete, la mentalità tradizionalista del piccolo paese imbevuto di cattolicesimo mi serpeggia sotto pelle ogni momento. È da dove provengo. È nel mio DNA. Però bisogna pur crescere e rendersi conto che nessuno ha l’autorità di decidere per te come vivere la tua vita. Nessuno ha l’autorità di decidere se sia giusto o meno che un omosessuale abbia unafamiglia. Queste sono considerazioni che danno frutto solo se fatte in paesi più ‘avanti’ in termini di diritti umani e leggi contro la discriminazione sessuale degli individui.
In Italia rimarrebbero solo idee rivoluzionarie da talk-show. Grazie al contatto con una società variegata come quella Londinese e a un apparato legislativo che tutela i diritti di ogni individuo, ho pian piano smesso di aver paura di desiderare l’indesiderabile e sono uscito da quella scatola di moda/sesso/discoteche/palestra/promiscuità in cui la società italiana mi voleva vedere come fosse l’unico habitat calzante per un omosessuale.
Ho aperto gli occhi alla vita, al futuro e a tutto quello che volevo contenesse: una casa, un marito affettuoso e dei figli.
MNR: Vuoi raccontarci i passaggi di questa esperienza, soprattutto della paternità? Quale assistenza hai trovato in California?
M.P: 
Il percorso è iniziato nel 2006, quando per la prima volta abbiamo seriamente cominciato a guardarci intorno e a vagliare tutte le nostre possibilità. Allora nel Regno Unito la maternità surrogata era più un accordo tra parti consenzienti (una donna che accetta di rimanere incinta col vostro bambino...), piuttosto che un vero e proprio procedimento regolato a norma di legge. Noi non eravamo pronti ad affrontare le inevitabili ‘zone grigie’ al limite del legale, non eravamo disposti  a subire lo stress delle incognite legali che un procedimento del genere poteva rappresentare nel nostro paese.
Ci siamo rivolti altrove. In California, la maternità surrogata è una realtà vecchia di quasi 40 anni ed è regolata da un apparato legale preciso che non lascia spazio all’interpretazione di nessuno. È ovvio che dover spostare il nostro raggio d’azione oltreoceano ha comportato dei costi ingenti, ma abbiamo fatto sacrifici, messo da parte i finanziamenti di cui avremmo avuto bisogno e siamo partiti col programma.
Prima fase, dopo mesi di telefonate a diverse agenzie di maternità surrogata, nel 2007 siamo  andati ad incontrare i rappresentanti dell’agenzia prescelta a Los Angeles. CSP (Center for Surrogate Parenting) si occupa di mettere in contatto i futuri genitori con le possibili mamme gestazionali (surrogati).
La coppia e il surrogato sono messi in contatto in base al livello di compatibilità determinato da una psicologa che, dopo aver valutato entrambe la coppia e la mamma gestazionale, segue tutto il procedimento fino alla nascita del bambino e si assicura che il benessere psicologico ed emotivo di entrambe le parti sia rispettato.
Alcuni surrogati non vogliono lavorare con coppie gay, altre non vogliono lavorare con coppie Europee, altre ancora non vogliono lavorare con coppie in generale, ma singles desiderosi di concepire. Tutto si basa sull’esperienza personale che le ha spinte a mettersi a disposizione dei ‘non fertili’.
Abbiamo avuto modo di venire a conoscenza di surrogati che hanno assistito alla lunga e dolorosa spirale di depressione di sorelle ed amiche e cugine impossibilitate a concepire, e questo le ha spinte ad aiutare il prossimo.
Non tutte le donne possono diventare surrogati. È una questione di sensibilità verso il desiderio altrui di diventare genitori.
C’è anche un aspetto finanziario, dal momento che la mamma gestazionale viene remunerata, ma si tratta sempre di cifre che non ti cambiano la vita. Per questo mi piace pensare che si tratti solo di altruismo: perchè certi gesti non hanno prezzo.
Importante sapere poi che non è mai la coppia che sceglie il surrogato, ma quest’ultimo che sceglie la coppia con cui lavorare e ha il potere decisionale e finale di accettare se iniziare il percorso o meno. Nel nostro caso, abbiamo optato per una maternità surrogata ‘a triangolo’, piuttosto che quella tradizionale ‘diretta’. Questo tipo di maternità surrogata comporta l’ovodonazione da parte di una donatrice esterna, assicurando che il nascituro non sarà biologicamente legato alla madre gestazionale, semplificando notevolmente le prassi legali.
Se pensate che trovare il surrogato ideale è la cosa dura ricredetevi!
Trovare una donatrice di ovuli (fatemele chiamare ‘uova’, abbiate pazienza, mi fa più simpatico e meno clinico...), è stata la vera impresa! Non si tratta solamente dell’aspetto superficiale di decidere se ci piace di più bionda o mora (siamo gay sì, ma non siamo scemi...), ma di determinare quale sarà quella che donerà uova viabili per la fecondazione in provetta.
Aggiungete a questo, il fatto che a causa del costo ingente dei laboratori (approx $2000) nessuna delle centinaia di ovodonatrici in nessuna agenzia viene analizzata geneticamente a priori per determinare se esistono condizioni di salute preoccupanti a livello di DNA e avete l’idea. Si compra a scatola chiusa.
Per poter determinare se la candidata all’ovodonazione è ‘pulita’ da qualsiasi problema a livello genetico bisogna pagare per il test. Quando questo dà esiti negativi, ecco che bisogna ricominciare da capo.
In più, la qualità delle uova si scopre solo una volta che sono state estratte e che il ciclo è stato concluso (e pagato!!). Insomma, non è facile come alcuni vorrebbero farvi credere, non è come andare al supermercato e comprare un bambino. Magari lo fosse.
Saremmo tutti lì.
No... È un esercizio di fede e coraggio dove lo stress finanziario è nulla paragonato a quello emotivo. Fidatevi.
Noi abbiamo tentato con ben 6 diverse donatrici prima di trovare quella giusta. Dopo lafecondazione avvenuta usando il seme di entrambi e una gravidanza fallita alla terza settimana a maggio del 2008, nell’ottobre dello stesso anno eravamo finalmente in dolce attesa e a giugno del 2009 il nostro piccolo G è nato con parto cesareo.
Ben tre anni dopo l’inizio del percorso.
MNR:   Hai mai pensato che questa fosse una scelta folle? Se si, come hai superato questi dubbi?
M.P: 
Una scelta folle. In retrospettiva, parlando sinceramente, no, non ho mai pensato fosse una scelta folle, ma ero comunque molto consapevole delle possibili ripercussioni sociali che la nostra scelta avrebbe potuto comportare.
Ma volere una famiglia in sé e per sé mi sembra la cosa più naturale del mondo. Per chiunque.
Mi spiego, il problema non è una coppia gay che vuole avere figli, il problema è con quanti sono pronti ad attaccare questa famiglia, la sua validità e l’amore che la tiene unita, con l’odiosa retorica della loro moralità.
Appena 40 anni fa, qui in Inghilterra, il matrimonio ‘misto’ tra persone di razze diverse era considerato tabù alla pari delle unioni omosessuali. I figli di queste coppie, né bianchi né neri, hanno vissuto ai limiti del sociale, per anni respinti da chi non sopportava l’idea della ‘contaminazione interrazziale’ della società. Adesso un concetto del genere fa ridere, eppure è storia vissuta per molti. Per noi famiglie omogenitoriali sarà lo stesso.

Una volta che la società riuscirà a scindere l’omosessualità da quell’elemento di perversione intrinseco all’omosessualità stessa, così come viene percepita dalle masse, forse inizieremo ad essere visti come esseri umani  capaci di amore, cura, altruismo e serietà. Forse tra 40 anni, tutte le speculazioni e le discriminazioni che orbitano attorno alle famiglie omogenitoriali faranno ridere.
Non dimentichiamoci che il problema non è l’omosessualità, il volere figli da parte di coppie gay, la maternità surrogata e l’ovodonazione. Il problema è l’omofobia, l’ignoranza, l’intolleranza e il moralismo di chi pensa di sapere tutto, ma in verità conosce ben poco di realtà come la mia.

MNR: Che cosa pensi della moda e del business della maternità, ampiamente arrivati anche in Italia?
M.P:
 Al di là dei connotati superficiali  della moda, secondo me il baby-business, e parlo non solo di abbigliamento, ma anche di libri, gadgets e tutto quello che potrebbe contribuire a migliorare e semplificare il duro lavoro di genitore, è una cosa molto positiva.
È ovvio che per un neo genitore, il venire a conoscenza delle ‘cuffie da pancione’ per far ascoltare Mozart al piccolo nascituro durante la gestazione può essere sconcertante: ‘Ma davvero il bambino ha bisogno di tutto ciò?’. Certo che no.
Ma tu, genitore stordito dall’imminente stravolgimento della tua vita, sì: hai bisogno di sentire che stai facendo la cosa giusta e che ti stai prendendo cura di tuo figlio. La migliore soluzione è una bella dose di buon senso.
Ho lavorato nella moda per 15 anni come creativo e posso dire, senza vergogna, che la moda si nutre delle insicurezze del pubblico offrendo metodi per ‘esorcizzare’ un senso di inadeguatezza che a volte è sconcertante, soprattutto tra i giovanissimi.
La stessa cosa si può dire del business relativo alla maternità: si nutre del ‘gioioso panico’ deifuturi genitori e della loro voglia di fare tutto, farlo bene e rassicurarsi che il piccolo sia felice.
Un aspetto che trovo più sconcertante però è la iper-medicalizzazione della gravidanza ai danni delle giovani mamme, che spesso significa anche prescrizione di esami, ecografie e integratori alimentari che eccedono l'utilità dimostrata.
E oltre alle spese, aumentano anche le ansie.
Suppongo che il by-product di questo meccanismo all’apparenza freddo e calcolatore, è la grande varietà di prodotti a nostra disposizione. Negli ultimi 20 anni, grazie al baby-business, abbiamo familiarizzato anche con i concetti di ‘funzionalità’, ‘eco-sostenibilità delle fonti di materiale’, e ‘salute alimentare’.
Questo può solo che essere positivo a mio avviso. Il mercato ti abusa e ti bombarda, è vero, ma ti educa anche.
Poi ovvio, sta a noi decidere se abbiamo davvero bisogno del lettino satellitare che si culla da solo suonando 134.000 ninnananne in tutte le lingue del mondo per stimolare il neonato ad imparare idiomi diversi. Voglio dire, possiamo anche essere stupidi e pagare il prezzo delle nostre insicurezze, ma fa parte della scoperta della genitorialità.
MNR: Come sono le mamme inglesi, online e offline, con le quali devi destreggiarti tutti i giorni?
M.P: 
Non conosco mummy-bloggers inglesi, suppongo che la gestione di un diario aperto online, che tutti possono leggere va un po’ contro i principi inglesi di discrezione e privacy. Soprattutto su una tematica che ti lascia esposto al giudizio e alla disapprovazione degli altri.
E diciamocelo poi, le mamme inglesi non hanno la vostra ‘verve’!!  Mi ritrovo a non avere molte mamme inglesi nel mio circolo, ovvero, sì, conosco molte mamme, tutte ex colleghe, ma sono per lo più di nazionalità diverse. Londra è un porto di mare, qui siamo tutti ‘inglesi forestieri’....
Trovo che il mio più grande scontro culturale non avviene con le mamme inglesi, ma con il generale atteggiamento sociale verso i bambini. L’Inghilterra non è un paese incentrato sulla famiglia come l’Italia.
Sarà che qui a 16 anni già vanno a vivere da soli, sarà che molti ancora vanno in boarding school e vedono i genitori tre volte al mese, ma i bambini quassù vengono visti prima di tutto come dei rompiballe da dover gestire.
Entri in un ristorante (uno di quelli che ti permette di entrare con il passeggino, e non sono molti...) e hai addosso gli occhi di tutta la sala. Voli in aereo con British Airways e se il pupo fa storie ti senti dire che ‘devi dargli una lezione...’. Voglio dire, tendono ad essere meno che accomodanti verso le famiglie in generale e i bambini in particolare, ma la mia soluzione è la seguente: mi metto il sedere in faccia all’italiana e continuo per la mia strada.
MNR: Credi si possa passare dalla mera informazione alla condivisione sociale?
M.P: Si cambia per osmosi. La società evolve grazie all’informazione. Grazie all’informazione alcuni dei concetti che facevano scalpore mezzo secolo fa, adesso fanno parte del quotidiano. L’informazione dà modo al pubblico di fare esperienza con certe situazioni, di farsi delle domande, di confrontarsi con delle realtà erroneamente considerate come lontane anni luce dalla propria.
L’informazione è fondamentale e la condivisione sociale è la sua diretta conseguenza, specialmente se supportata dalla legislatura. I tempi però sono lunghi, perchè smuovere un’idea sbagliata è sempre un’impresa ardua, ma grazie all’informazione combattiamo l’ignoranza non con la retorica, ma con i fatti.
MNR:  Ti piacerebbe diventare papà blogger di professione e quindi trasformare la passione in un lavoro?
M.P:
 Certo che sì! Ho iniziato il mio blog due anni fa come un modo per convogliare le mie energie creative e sopravvivere all’isolamento che a volte prendersi cura a tempo pieno di un figlio in una grande città comporta.
Ho perseverato a dispetto della difficoltà nel trovare il tempo per scrivere, dal momento che mio figlio è estremamente esigente, ed ho conosciuto tantissime belle persone che si trovano nella mia stessa situazione, pur essendo magari mamme, o papà eterosessuali o genitori singles.
Divisi da sessualità, lingua, status economico, ma uniti dall’essere genitori e animati dalle stesse speranze, apprensioni e paranoie. Vorrei poter mostrare la mia storia e la mia famiglia per educare il pubblico e per dare speranza e ottimismo a quanti vorrebbero avere quello che ho, ma si trovano bloccati da una società che è ancora indietro di almeno 30 anni in fatto di diritti umani degli omosessuali e che comunque soffre, come nessun altro paese europeo, dei retaggi della morale cattolica.

Ringraziamo di cuore Marco per la sua disponibilità al racconto e, sperando di poter nuovamente ospitare i suoi pensieri, presentiamo il  blog The Queen Father con le sue parole:
Sono un papà e marito gay che vive a Londra da 14 anni. Il blog è iniziato come un modo per incanalare una certa energia creativa, dal momento che professionalmente vengo da un fashion background molto impegnativo e mi sono buttato a piedi pari nella vita di genitore a tempo pieno, a volte permeata da una gran solitudine e isolamento dal mondo degli adulti. Nei miei post non concentro le mie attenzioni solamente sulla realtà di essere un genitore, perché credo che questa non sia una qualità finale di definizione per nessuno. È solo parte di ciò che sono. Nel blog parlo e sparlo di tutto: della mia vita privata (nella rubrica 'Open Diary'), pubblico fumetti disegnati da me e ispirati ai miei lettori (nella rubrica 'Galline'), e racconto la mia vita da genitore 'atipico' con onestà e ironia perchè a me piace davvero ridere. Di cuore!
Un anno fa ho vinto il premio di miglior blog LGBT, indetto da Circle of Moms di San Francisco (cioè , vabbè, una valanga di voti che fermatevi…) e sono stato anche intervistato da un paio di giornalisti italiani. Ho da poco iniziato a scrivere settimanalmente per una rivista web statunitense, "The Next Family", quindi qualcosa di buono lo sto facendo…. Il mio desiderio più grande è di contribuire alla sensibilizzazione del pubblico verso le famiglie omogenitoriali e i diritti umani della comunità LGBT italiana attraverso queste pagine di vita reale.
Basta continuare a leggermi e seguirmi e chissà, una volta che la De Filippi si decide a far fagotto, magari mi vedrete a condurre il mio talk show in prima serata dove mi diverto a sculacciare Giovanardi in diretta ogni volta che apre bocca…. Figo eh? Mi finanziate?

Fecondazione eterologa: un grande atto d'amore

          Le cinquemila coppie che, in soli due mesi, ne hanno fatto richiesta, potranno avere una possibilità. La speranza di poter cambiare la propria vita.
          Per molti la fecondazione eterologa, conosciuta anche come ovodonazione, quando a essere donati sono gli ovuli della donna, è il lato oscuro della pma. Perché rimanda a immagini che non siamo abituati a vedere, a concetti che non siamo pronti a cambiare, a modelli che siamo restii a rompere. E allora si tace, allora si nega, allora si cerca di non parlare di un problema che non ci riguarda direttamente e che affrontarlo significherebbe, scardinare abitudini mentali e abituarsi a non giudicare.
          Eppure la fecondazione eterologa è una possibilità per tanti. Eterologa è l’opportunità di concepire dopo un cancro, dopo una menopausa precoce, dopo una malattia genetica. Ma non si vuole capire, non si vuole comprendere questa visione.
          La maggior parte della gente non è ancora pronta per capire i gesti d’amore speciali, quelli delle donne che donano i propri ovociti a donne incapaci di creare la vita ma che moltiplicano l’amore nel riceverli e quelli degli uomini che donano il proprio sperma come donassero sangue per permettere ad altri uomini di essere padri, di essere famiglia. Una famiglia nuova, creatasi in maniera diversa.
          Perché concepire grazie ad una donazione significa mettere al mondo figli in modo diverso. La reazione del nostro paese alla diversità lascia seri dubbi circa il grado di educazione alle cose che si discostano dal comune sentire. E’ facile quando i figli semplicemente arrivano dopo aver fatto l’amore, calati dentro la normalità, perdere di vista la possibilità dell’eccezione. Siamo così abituati alle cose che vanno in un certo modo da non riuscire neppure a concepire che le combinazioni delle diverse verità siano infinite.
          Credo fortemente di comprendere e sentire le donne e gli uomini che vi ricorrono perchécredo nel diritto di scelta della coppia e trovo che le ragioni di opposizione a questo tipo di donazione possono essere solamente di tipo religioso, non trovando altra ragione logica o etica a questo divieto.
          A mio avviso non vi è nessuna differenza tra la donazione eterologa, la fecondazione omologa o l’adozione di un bambino. E’ genitore chi ha partorito allo stesso modo di chi non l’ha fatto ma ha allevato un figlio. Si è genitori dei propri figli indipendentemente da come siano stati materialmente concepiti. Il concepimento è un atto meccanico che può avvenire in circostanze anche non legate all'amore o può avvenire artificialmente ma con un amore immenso.
          E’ solo diversa la strada che si decide di prendere per arrivare al figlio che ci aspetta.
Fortunatamente non sono la sola a pensarlo. Infatti, è notizia di questi giorni la nascita dell’Aidag, l’associazione altruistica e gratuita di donazione dei gameti: si tratta della prima associazione che accoglie tutte le persone che intendono donare un proprio ovulo o spermatozoo in pieno anonimato, consentendo ad una coppia sterile di coronare il sogno di diventare genitori.
          L’associazione è stata presentata in occasione del convegno che si è tenuto il 5 giugno scorso alla Camera dei Deputati, dal titolo La tutela della salute per le coppie infertili e sterili dopo le sentenze della Corte Costituzionale, allo scopo di promuovere la possibilità di aiutare, attraverso la donazione di ovuli e spermatozoi, le coppie sterili ad avere un figlio.
          E’ bello sapere che molte persone ritengono la donazione un atto d’amore verso gli altri.


Sull’autrice

Raffaella Clementi è autrice di 'Lettera a un bambino che è nato', un libro-diario in cui racconta la sua esperienza personale di fecondazione assistita fino alla nascita del figlio.

Endometriosi: 13 cose che TUTTE le donne dovrebbero sapere su una malattia che può causare infertilità

        L'endometriosi è una malattia poco conosciuta ma più frequente di quel che si creda: colpisce infatti il 10-20% delle donne in età riproduttiva e può provocare disturbi invalidanti e infertilità. Non è sempre facile da riconoscere, perché i sintomi possono essere poco specifici e quindi comuni ad altre patologie. Oggi, però, sono molti gli strumenti a disposizione per affrontarla e curarla.
1 Che cos’è l'endometriosi? La parola deriva da endometrio, il tessuto che riveste la cavità dell'utero e che ogni mese va incontro a precise modificazioni seguendo il ciclo mestruale: cresce poco a poco e poi si sfalda, sanguinando con la mestruazione.
         Si parla di endometriosi quando questo tessuto si sviluppa anche in sedi anomale, al di fuori della cavità uterina. Più di frequente l'endometriosi interessa le ovaie, i legamenti uterini, il tessuto che riveste l’interno dell’addome e del bacino, ma può riguardare anche la zona tra vagina e retto, l'intestino, la vescica e l'uretere. "Una forma particolare di endometriosi è l'adenomiosi, che si ha quando il tessuto endometriale si infiltra nella parete muscolare dell'utero" spiega Elena Zannoni, responsabile del servizio di chirurgia ginecologica dell'Istituto clinico Humanitas di Rozzano (MI).
Più raramente, possono essere interessate anche sedi più lontane.
Sezione di tuba di falloppio con endometriosi
2 Che cosa comporta la presenza di endometrio al di fuori dell'utero?
        "L'endometrio presente in sedi anomale si comporta come quello che riveste la cavità uterina" afferma Massimo Bardi, responsabile del Centro per la diagnosi e cura dell'endometriosi dell'Ospedale di Calcinate (BG). "Questo significa che ogni mese, sotto l'influsso degli ormoni del ciclo mestruale, si sfalda, provocando piccoli sanguinamenti". 
        A differenza di quanto accade con il sangue delle mestruazioni, però, queste microperdite non possono uscire e tendono ad accumularsi, infiammando le aree circostanti e determinando in alcuni casi la formazione di noduli e cisti
        Inoltre, l'endometriosi può portare alla formazione di aderenze tra i vari organi contenuti nel bacino.

3 Da che cosa dipende l'endometriosi?
        Si ritiene che la causa principale sia la cosiddetta mestruazione retrograda. "In pratica, durante la mestruazione un po' di sangue mestruale può rifluire nella cavità addominale, portandosi dietro delle cellule endometriali" spiega Fabio Parazzini, professore associato di ginecologia all'Università di Milano, già coordinatore di un gruppo di studio nazionale sull'endometriosi. "In presenza di particolari condizioni favorevoli, queste cellule possono impiantarsi in sedi anomale, dando il via a piccoli focolai di endometriosi".
        Non è ancora del tutto chiaro quali siano queste condizioni favorevoli: probabilmente sono coinvolti vari fattori immunitari, infiammatori e vascolari.

4 Quanto è frequente l'endometriosi?
        Non ci sono dati definitivi sulla patologia nella popolazione italiana, ma si stima che colpisca il 10-20% delle donne in età riproduttiva e che sia quindi una malattia piuttosto comune. "Anzi, è una malattia emergente che sta diventando più frequente di un tempo, perché le donne arrivano alla prima gravidanza sempre più tardi e questo rappresenta un fattore di rischio" aggiunge Zannoni. 
        Molte tra le donne colpite, comunque, non sanno neppure di averla: magari la condizione viene scoperta per caso, nel corso di accertamenti fatti per altre ragioni.

5 Ci sono particolari fattori di rischio?
        Costituiscono fattori di rischio significativi per l'endometriosi:
  • l'assenza di gravidanze. "Questo succede perché, arrestando le mestruazioni, la gravidanza spegne i fattori che stimolano l'insorgenza o la progressione della malattia" spiega Parazzini. "Più tardi arriva una gravidanza, più tempo e più occasioni si danno alla malattia di instaurarsi";
  • cicli mestruali molto corti e mestruazioni molto abbondanti.
Alcuni studi hanno evidenziato altri fattori di rischio più deboli, legati allo stile di vita e all'ambiente. "Si tratta in particolare del consumo di alcol, di una dieta molto ricca di grassi e povera di frutta e verdura, dell'esposizione a sostanze tossiche come la diossina" precisa Parazzini. "Ma attenzione: sono associazioni deboli, che vanno indagate meglio. E che rendono conto solo di una piccola parte del rischio, in un numero limitati di casi".

6 Come si riconosce l’endometriosi?
        Quando presenti, i sintomi più caratteristici sono di due tipi: dolore e infertilità.
         Circa il 70-80% delle donne con endometriosi presenta caratteristici dolori cronici. Si tratta in particolare di dolori mestruali - che in genere accompagnano flussi irregolari e abbondanti, soprattutto in caso di adenomiosi - dolore durante i rapporti sessuali, dolore pelvico generale, specialmente nei giorni appena prima o appena dopo la mestruazione.
         A questi se ne possono associare altri, variabili a seconda degli organi coinvolti, come dolori al retto durante la defecazione o alla vescica durante la minzione, diarrea e/o stitichezza. Spesso anche questi sintomi si manifestano in concomitanza con i giorni della mestruazione.
         "Purtroppo, a volte questi dolori sono così intensi da risultare debilitanti e alterare la qualità della vita" sottolinea Bardi. Questo si traduce in un impatto concreto sulla vita quotidiana, come racconta Jacqueline Viet, fondatrice e presidente dell'Associazione italiana endometriosi: "I dolori cronici dell'endometriosi possono compromettere la costanza nello studio o nel lavoro, impedire il normale svolgimento delle attività domestiche, ostacolare la vita sociale".
         Altro sintomo possibile è l'infertilità: si stima che il 30-40% delle donne infertili soffra di endometriosi.

7 Che rapporto c'è tra endometriosi e infertilità?
        In alcuni casi c'è un rapporto diretto, perché la malattia può determinare la formazione di aderenze, ostruzioni e alterazioni anatomiche che impediscono fisicamente l’incontro tra ovulo e spermatozoi o l'impianto dell'embrione.
         "In altri casi l'associazione tra endometriosi e infertilità non è così chiara" precisa Zannoni. "Può darsi che siano coinvolti fattori immunitari o vascolari, che in qualche modo ostacolano la funzionalità ovarica o l'instaurarsi di una gravidanza".

8 Se la gravidanza parte, l'endometriosi può causare complicazioni?
        Quello degli effetti dell'endometriosi sulla gravidanza è un campo di ricerca emergente. Alcuni studi recenti sembrano suggerire un'associazione tra questa condizione e un aumento del rischio di aborto o di complicazioni come parto pretermine, ma in realtà è ancora da chiarire se questi effetti dipendano dall'endometriosi di per sé o dal fatto che si tratti di gravidanze che arrivano in età più avanzata o grazie a fecondazione assistita.
         "Probabilmente alcune localizzazioni dell'endometriosi, come quelle nella parete dell'utero, comportano qualche complicazione in più, ma in generale il messaggio deve essere rassicurante: se la gravidanza parte, riesce anche ad arrivare bene a termine" commenta Zannoni. "Ovviamente però, è importante che le donne che si trovano in questa condizione vengano seguite un po' più attentamente, con qualche visita e controllo in più".

9 Come si può diagnosticare l’endometriosi?
        "La diagnosi si fa innanzitutto su base clinica, cioè partendo dai sintomi che la donna riferisce" afferma Bardi. Il medico chiederà in particolare come sono i cicli mestruali, se i rapporti sessuali sono dolorosi, se si stanno cercando figli e non arrivano.         
        Il secondo step è la visita ginecologica, che può dare indicazioni su un'eventuale endometriosi con localizzazioni a livello vaginale, retto-vaginale o del collo dell'utero.
         L'ecografia transvaginale permette invece di individuare con chiarezza eventuali cisti a carico delle ovaie. A volte, questi strumenti non bastano per una diagnosi definitiva: in questi casi la certezza può essere ottenuta con la laparoscopia, una tecnica chirurgica mini-invasiva che consente di esaminare l'interno dell'addome.
         "Purtroppo, il percorso non è sempre lineare e possono volerci anche anni prima di arrivare a una diagnosi definitiva" sottolinea Viet. "Questo dipende in parte dal fatto che le donne tendono a trascurare i propri sintomi dolorosi, considerandoli come normali, in parte dal fatto che anche alcuni medici sottovalutano i sintomi e la malattia".

10 In caso di endometriosi bisogna sempre intervenire o si può anche non fare nulla?
        "Si può anche non fare nulla, ma dipende dalle situazioni" risponde Zannoni. "Se non ci sono sintomi, la donna non sta cercando figli e i controlli dicono che la situazione è stabile si può tranquillamente non fare nulla".
         "Se però le condizioni cambiano, le visite dicono che la malattia sta progredendo, il dolore diventa importante oppure la donna desidera una gravidanza, o addirittura ha cominciato a cercarne una e vede che non arriva, è meglio intervenire".

11 Come si interviene?
        In genere per prima cosa si interviene con una terapia farmacologica, per esempio a base dipillola anticoncezionale che, riducendo in modo significativo il sanguinamento mestruale, rallenta molto anche l'endometriosi. "Più di recente sono stati introdotti farmaci specifici per questa malattia a base di progestinici, che inibiscono le modificazioni endometriali senza alterare la normale funzionalità ormonale ovarica" aggiunge Bardi.
         Questi farmaci sono a carico della paziente. "Non sono previste esenzioni per questa malattia" spiega Viet, che sottolinea come l'Associazione italiana endometriosi sia attualmente impegnata in campagne e attività per il riconoscimento dell'endometriosi come malattia cronica.
         Se le terapie non sono sufficienti o se i sintomi sono in partenza molto severi o vengono subito individuati cisti e noduli importanti, si preferisce una strategia chirurgica. L'intervento avviene in laparoscopia e permette di rimuovere i tessuti anomali. "Ma attenzione, soprattutto nel caso di localizzazioni ovariche, oggi si tende a intervenire con molta cautela" sottolinea Zannoni. "Questo perché c'è sempre il rischio che, intervenendo sulle ovaie, si danneggi anche qualche follicolo, riducendo così la riserva ovarica".
         Non è tutto. Aggiunge Bardi: "Trattandosi di una malattia che può alterare la percezione dell’immagine corporea e dell’identità femminile, è importante anche un supporto psicologico per le donne colpite da endometriosi". Supporto che può essere anche realizzato tra "pari", cioè tra gruppi di pazienti, nei cosiddetti gruppi di auto-mutuo-aiuto.
         E ancora, al di là delle strategie più radicali, possono essere utili anche altre strategie "alternative" di controllo del dolore. Alcuni studi suggeriscono l'efficacia, in questo senso, di percorsi di mindfuless o di terapia cognitivo-comportamentale.

12 Ci sono diete efficaci per rallentare la malattia e ridurre i sintomi?
        "Anche a questo proposito non ci sono conclusioni definitive" risponde Parazzini. Alcuni studi sembrano suggerire che una dieta ricca di frutta, verdura, legumi e povera di grassi di origine animale e zuccheri possa dare una mano. "Non abbiamo dati che dicano che funziona davvero, ma a livello individuale può valere la pena fare un tentativo".

13 A chi rivolgersi? In genere per una diagnosi iniziale basta andare dal proprio ginecologo, ma se il quadro diagnostico è poco chiaro è opportuno recarsi in centri dedicati, che seguono precisi protocolli dove vari specialisti in team individuano gli esami più appropriati a seconda delle sede coinvolta. Dopo la corretta diagnosi, si deciderà quale percorso seguire: se non fare nulla e proseguire con i controlli, oppure seguire una terapia medica o chirurgica. In Italia vi sono vari centri dedicati alla diagnosi e alla cura dell’endometriosi, anche se spesso non hanno una denominazione specifica. Se non si trova un centro dedicato in modo specifico a questa malattia, ci si può rivolgere a centri che si occupano di infertilità o di chirurgia ginecologica.
Fonti : consulenza di: Elena Zannoni, responsabile del servizio di chirurgia ginecologica dell'Istituto clinico Humanitas di Rozzano (MI); Massimo Bardi, responsabile del Centro per la diagnosi e cura dell'endometriosi dell'Ospedale di Calcinate (BG); Fabio Parazzini, professore associato di ginecologia all'Università di Milano; Jacqueline Viet, fondatrice e presidente dell'Associazione italiana endometriosi.

Come smettere di allattare, 10 consigli antistress (e senza medicinali)

        Prima o poi, tutti i bambini allattati al seno smettono spontaneamente di poppare. A volte succede presto, anche prima dell'anno di età, ma in genere i bimbi lasciati liberi di scegliere tendono a "svezzarsi da soli" più avanti, tra i due e i 5-6 anni: una condizione che non ha nessuna controindicazione ma che può risultare pesante per alcune mamme. Che per varie ragioni possono desiderare di forzare i tempi e smettere prima di allattare.

        Abbiamo chiesto ad Antonella Sagone, consulente IBCLC, e ad Alessandra Bortolotti, presidente del Movimento Allattamento Materno Italiano, entrambe psicologhe perinatali,come fare per smettere di allattare senza troppo stress. Ecco i loro consigli.

Un'importante premessa
"Tutte le mamme hanno il diritto di smettere di allattare" dichiara Alessandra Bortolotti. "Quindi nessuna colpevolizzazione per le donne che decidono di farlo e che potranno essere comunque  mamme in gambissima, perché l'allattamento non è l'unico strumento possibile di una sana relazione". L'importante, però, è che questa decisione venga dalle mamme stesse e non sia condizionata da influenze esterne, per esempio da pressioni sociali. E una volta presa la decisione, la parola chiave è gradualità.

1. Analizza bene la tua motivazione        Diciamocelo chiaramente: allattare è molto gratificante, ma può essere anche faticoso, sia quando il bimbo è piccolo, sia quando è più grandicello. È normale che anche le mamme più motivate a volte abbiano voglia di smettere. In questi casi, è bene provare a tenere duro per qualche giorno, chiedendo una mano al partner, ai familiari, agli amici per gestire le incombenze della vita quotidiana. Magari è solo una crisi passeggera.

        Se la stanchezza è cronica, può darsi che il problema siano le condizioni generali di vita della mamma e non l'allattamento di per sé. "Se la mamma non riceve alcun tipo di sostegno e deve far tutto da sola, la situazione non migliorerà una volta abbandonato l'allattamento" afferma Sagone.  

        Se la scelta di interrompere l'allattamento dipende dal lavoro considera che prima del rientro puoi tirare del latte, da congelare e lasciare a chi si occuperà del piccolo. Se, dopo la giornata di lavoro, ti risulta troppo faticoso allattare il bebé durante la notte, puoi decidere dieliminare le poppate notturne, lasciando per esempio quelle del mattino e della sera.

        Se tuo figlio si avvicina ai due anni o più e vuoi smettere di allattarlo perché tanti ti dicono che sarebbe meglio così - "ormai è solo un vizio", "il latte è solo acqua", "poi non riesci più a staccarlo" - sappi che non c'è alcuna controindicazione all'allattamento prolungato.
L'Organizzazione mondiale della sanità raccomanda di proseguire l'allattamento al seno fino a due anni e oltre, a patto che vada bene a mamma e bambino.

2. Informati sulle possibili conseguenze        Molte mamme pensano che, togliendo il seno al bambino, la sua gestione risulterà più facile: dormirà tutta la notte, non cercherà sempre la mamma ma starà più volentieri anche con altri, non cercherà di continuo il contatto fisico: oltre che poppare, infatti, spesso i bambini allattati al seno amano trastullarsi con il seno stesso, toccandolo, accarezzandolo o giocandoci.

        Ebbene, non è detto che, svezzando completamente il bambino, tutto questo passi. Anzi: molti bimbi continueranno a svegliarsi di notte, a cercare con insistenza la compagnia della mamma, a voler mettere le mani sul seno, e a quel punto la mamma avrà uno strumento in meno per riaddormentarli, calmarli, consolarli.

"Smettere di allattare sulla base di aspettative non realistiche non è giusto né per la mamma né per il bambino" sottolinea Antonella Sagone. "Per questo è importante informarsi per bene prima di decidere di farlo".
        Se il bambino ha meno di un anno, al posto del latte materno dovrà ricevere del latte di crescita. In questo caso, considera che soprattutto all'inizio potrebbe soffrire di stitichezza, un effetto "collaterale" piuttosto diffuso del latte artificiale.

A chi chiedere consiglio
Se hai bisogno di aiuto, esistono varie realtà e varie figure di esperti alle quali puoi rivolgerti: consulenti in allattamento presso i consultori territoriali (anche se non sempre sono presenti), esperte di allattamento IBCLC, che sono le uniche a ricevere una formazione internazionale ufficiale. Esistono anche varie associazioni che possono offrire aiuto, come la Leche League o il Mami, Movimento allattamento materno italiano.

3. Una volta presa la decisione, procedi con gradualità        Qualunque sia la ragione, hai deciso di smettere di allattare al seno. Benissimo: l'importante, ora, è farlo gradualmente e non di botto, per due ragioni principali:
  •  evitare la formazione di ingorghi mammari, che potrebbero evolvere in mastiti. In questo senso può essere utile imparare a spremersi manualmente il seno: se, diradando le poppate, il seno si riempie troppo tra una poppata e l'altra, la spremitura può dare sollievo e prevenire la formazione di ingorghi.
  • evitare una sofferenza eccessiva al bambino. Inutile girarci intorno: per il bebé, abbandonare completamente il seno è un piccolo trauma, che però può essere vissuto in modo più o meno stressante e "doloroso" a seconda di come viene gestito il passaggio.
4. Elimina per prime le poppate meno importanti        Procedere con gradualità significa eliminare poco alla volta alcune poppate della giornata, fino ad arrivare a eliminarle del tutto. Già, ma da quali poppate cominciare? Soprattutto se si parla di un bimbo grandicello, va considerato che a volte la richiesta del seno viene fatta per noia o per fame. Cerca di anticipare queste richieste: puoi anticipare l'ora dei pasti o offrire qualche spuntino in più. E se capisci che il piccolo si sta annoiando puoi coinvolgerlo in qualche attività divertente.

        Spesso le poppate più difficili da eliminare sono quelle della sera e della notte e qui può essere utile coinvolgere il papà: è molto difficile per un bimbo abituato ad attaccarsi al seno durante i risvegli notturni accettare che di punto in bianco la mamma non sia più disposta a darglielo. Un po' più facile, all'inizio, riaddormentarsi con l'aiuto del papà.

5. Non offrire il seno, se non c'è richiesta
        Siccome il seno è un ottimo calmante, può succedere che la mamma lo offra di sua iniziativa, magari per tenere buono il bambino che pure in quel momento non sarebbe interessato. Se stai cercando di smettere di allattare questo non va fatto, anche perché ti impedisce di capire quali sono le poppate davvero importanti per tuo figlio.

6. Sii flessibile a ascolta il tuo bambino        In genere, con un po' di fatica, tanta attenzione e tanta pazienza, si riesce a smettere di allattare in un paio di settimane. All'inizio ci saranno proteste - il bambino potrebbe essere un po' più appiccicoso o nervoso, o piangere di più - ma di solito il piccolo riesce ad adattarsi abbastanza in fretta alla nuova condizione. Ovviamente, però, la transizione sarà tanto più difficile quanto meno il bambino sarà pronto al passaggio.

        A volte il piccolo potrebbe non essere per niente pronto, manifestandolo con pianti inconsolabili o con alterazioni vistose del comportamento: magari prima dormiva bene e invece comincia a svegliarsi ogni ora, oppure aveva abbandonato il pannolino e ora invece non controlla più la pipì. In questi casi è bene fermarsi a valutare la situazione, provare a cambiare strategia o, se possibile, fare un passo indietro e rimandare di qualche tempo l'interruzione dell'allattamento.

7. Non usare trucchi o bugie        La tradizione popolare consigliava di applicare sul seno sostanze amare o acide per convincere il bambino a non attaccarsi più. Altri ancora oggi suggeriscono di mettere dei cerotti e raccontare al piccolo che il seno "ha la bua". Per Antonella Sagone sono tutte strategie poco rispettose nei confronti del bambino, che per di più rischiano di lasciare un ricordo amaro di un'esperienza bellissima o di indurre un precoce senso di colpa: se si dice che il seno "ha male", il bimbo potrebbe pensare di essere stato lui a provocarlo.

Si può dire "adesso no"
Anche chi decide di continuare ad allattare ha le sue giornate "no". Allattamento non deve significare sacrificio continuo: i momenti in cui proprio non si ha voglia esistono e sono legittimi e, nel contesto di una relazione improntata al rispetto, la mamma ha tutto il diritto di negare il seno. "La mamma può serenamente spiegare al bambino che in quel momento è stanca, e davvero preferirebbe che lui non si attaccasse" spiega Antonella Sagone. Certo, questo non vuol dire che il bimbo capisca e accetti la situazione. "A volte il piccolo accetta di fare altro, magari concordando l'alternativa con la mamma. Altre volte non lo accetta: piange, si dispera, ma va bene anche così. Le giornate storte capitano a tutti".

8. No ai farmaci        Esistono pastiglie in grado di "mandare via il latte". Ma attenzione, sono a base di un farmaco che agisce inibendo la secrezione della prolattina, ormone coinvolto nella produzione di latte soprattutto nelle prime otto settimane di vita del bambino. Per questo, sono efficaci soprattutto se assunte prima dell'attivo della montata lattea, mentre lo sono molto meno nei mesi successivi. Inoltre possono avere effetti collaterali come vertigini, mal di testa e dolori all'addome.

9. No alle fasciature del seno        Era un vecchio consiglio della nonna: fasciare il seno per ridurre la produzione di latte. Ebbene, è un consiglio da evitare accuratamente: fasciare il seno è pericoloso, perché la compressione comporta il rischio di ingorghi e mastiti.

10. Valuta la possibilità di "allentare" l'allattamento, senza interromperlo del tutto        A volte non è necessario smettere del tutto di allattare: per accontentare mamma e bambino potrebbe essere sufficiente diradare le poppate, eliminandole alcune. Esempio: se alla mamma pesa troppo la poppata serale, oppure la prima del mattino, può pensare di eliminare quella, senza toccare le altre.

        Mano a mano che il bambino cresce, si può provare a "contrattare" un po' sul numero e la durata delle poppate, per alleggerire il carico. Per esempio si può provare a ritardare il momento della poppata :"Ora non posso perché sto cucinando. Che ne dici di una bella poppata appena abbiamo finito di cenare?" (ovviamente la promessa va poi mantenuta). Oppure si può tentare di ridurre i tempi: "Per questa poppata contiamo fino a 10", o "puoi stare attaccato il tempo di una canzoncina".

A chi manca, a chi no
Che succede alle mamme, dopo che hanno smesso di allattare? Dipende molto da donna a donna: "La maggior parte delle mamme con cui entro in contatto mi dice che ne sentono la mancanza, ma non per tutte è così" sottolinea Alessandra Bortolotti. "Per alcune smettere di allattare è un vero dolore, per altre una grandissima liberazione".

Fonte http://www.nostrofiglio.it/neonato/allattamento/smettere-di-allattare-senza-stress

La crescita del bambino, le tappe da 0 a 12 mesi

        Ecco le principali tappe dello sviluppo di un bambino nel suo primo anno di vita: il 90-95% di tutti i bambini sani raggiunge lo stesso grado di sviluppo in questo periodo. Non dimenticarti però che le tabelle di sviluppo danno un'indicazione di quello che il bambino dovrebbe fare ma non contengono verità assolute.

        Quindi nessuna paura se il tuo bambino non si adatta al 100% alle tabelle. Molti bambini sani hanno diverse priorità nello sviluppo: magari iniziano a camminare velocemente ma a parlare più tardi oppure il contrario.

        Se hai la sensazione che il tuo bambino non si stia sviluppando nel modo giusto, non farti prendere dall'ansia ma vai a fondo. Annota per qualche settimana quello che osservi.
E se ritieni che non compia progressi in diversi ambiti dello sviluppo, fallo visitare da un pediatra o da un esperto dello sviluppo, anche al di fuori delle normali visite. Una stimolazione mirata e tempestiva può fare miracoli.




Fonte (Neurologia dello sviluppo e neuropediatria) di Richard Michelis/Gerhard Niemann. Articolo tratto da Eltern