Un esame ti dice se sei immune
Non è facile capire se nel corso della propria vita ci si è ammalati di toxoplasmosi, perché nella maggior parte dei casi chi la contrae non presenta sintomi. In alternativa, i disturbi provocati possono essere confusi con quelli di una banale influenza. La malattia si risolve nel giro di 5/6 giorni e a quel punto si sviluppano gli anticorpi e una immunità permanente. Ma c’è un solo modo per capire se nel corso della propria esistenza si è entrati in contatto con il protozoo del Toxoplasma e si è quindi sviluppata l’immunità: attraverso gli esami del sangue.
Nelle analisi prescritte di routine alle donne in attesa, viene inserita la ricerca degli IgG e degli IgM. I primi dicono se c’è stata un’infezione in passato mentre le IgM attestano che la toxoplasmosi è tuttora in corso e dunque può passare anche al feto. Se entrambi gli esami sono negativi, significa che la donna non ha l’infezione, ma non ha sviluppato nemmeno gli anticorpi e quindi, se contagiata nel corso dei nove mesi, potrebbe ammalarsi. Per tenere monitorata la situazione, chi non è immune durante la gravidanza deve ripetere l’esame ogni mese e mezzo circa. In modo che, in caso di infezione, si possa ricorrere alla terapia antibiotica per bloccare il contagio del nascituro o limitare i danni alla sua salute.
Quali rischi corre il bambino
Se il contagio avviene durante la gestazione, le prime 26 settimane di gravidanza sono le più a rischio. Nel primo e nel secondo trimestre, infatti, si formano e si sviluppano gli organi del feto. Se la futura madre si ammala, nel primo trimestre va incontro al rischio di un aborto o di una morte fetale, mentre nel secondo trimestre il feto può subire danni gravi come encefalite, idrocefalo e calcificazioni cerebrali, infezioni oculari, sordità, polmonite, malformazioni cardiache. Meno grave se la madre si ammala durante il terzo trimestre, un evento che non è comunque scevro di pericoli: il bambino può infatti sviluppare una forma di anemia, che può manifestarsi in maniera anche severa.
Carne cruda in gravidanza? No, solo dopo il parto
Come detto all’inizio, la via di trasmissione più comune della malattia è il cibo. È dunque soprattutto all’alimentazione che bisogna prestare attenzione: il divieto di mangiare carne cruda di qualsiasi animale è assoluto. Per questo, occorre dare l’addio, fin dopo il parto, al carpaccio, alla tartare, a salsicce e salami in gravidanza. Occorre evitare anche prosciutto crudo, coppa o bresaola in gravidanza, se non sono ben stagionati: importante controllare che abbiano un’etichetta DOP (denominazione di origine protetta).
Meglio orientarsi sul prosciutto cotto, più sicuro perché prodotto con carni cotte. È infatti la cottura a distruggere completamente il protozoo, che potrebbe essere presente nelle carni, quindi è bene cucinare a puntino tutti i pezzi di carne presenti nel menù della futura mamma. E quando è la stessa donna in attesa a fare la cuoca in casa, deve avere l’accortezza di non portare inavvertitamente le mani alla bocca dopo aver toccato la carne cruda, ma di lavarle subito con acqua e sapone. Attenzione, inoltre, agli ortaggi, che potrebbero essere stati contaminati da feci di animali infetti: prima del consumo, frutta e verdura vanno lavate in acqua e bicarbonato per almeno 20-30 minuti.
Il gatto può rimanere in casa
Sul banco degli imputati, responsabile di diffondere la toxoplasmosi c’è da sempre il micio, nelle cui feci, se malato, si celano le uova del Toxoplasma. Quando si accorgono di aspettare un bambino e di non aver sviluppato l’immunità nei confronti della toxoplasmosi, molte donne che vivono con un micio vengono assalite dal dubbio: non sarà meglio liberarsi del gatto o affidarlo alle cure di altri, almeno fino a dopo il parto?
Sono soluzioni drastiche, per niente necessarie. Il gatto domestico, che vive in casa e si ciba solo di scatolette o croccantini e non di carne cruda, difficilmente sarà infetto. È certo, però, che per azzerare completamente il rischio del contagio occorrono degli accorgimenti. Una delle regole da rispettare è di non pulire la cassettina igienica del micio di casa; questo compito può essere svolto dal futuro papà. Se proprio non ci sono alternative, la futura mamma può provvedere alla pulizia, ma non prima di essersi infilata guanti di plastica usa e getta e a patto, poi, di lavarsi accuratamente le mani. Sono in tanti a sostenere che il gatto non bisognerebbe neppure toccarlo se si è incinte e non immunizzate alla toxoplasmosi. Non è vero. È sufficiente la normale regola igienica che si adotta per prevenire tutte le malattie virali: lavarsi spesso le mani durante il giorno con acqua e sapone.
Diverso il discorso per i mici randagi o per i gatti che non si conoscono. Con loro è buona norma evitare incontri ravvicinati e, se per caso capita di toccarli, non c’è che una soluzione: lavare bene le mani.
Fonte http://www.dolceattesa.com/gravidanza/toxoplasmosi-in-gravidanza_alimentazione_prevenzione_salute-ed-esami/
Non è facile capire se nel corso della propria vita ci si è ammalati di toxoplasmosi, perché nella maggior parte dei casi chi la contrae non presenta sintomi. In alternativa, i disturbi provocati possono essere confusi con quelli di una banale influenza. La malattia si risolve nel giro di 5/6 giorni e a quel punto si sviluppano gli anticorpi e una immunità permanente. Ma c’è un solo modo per capire se nel corso della propria esistenza si è entrati in contatto con il protozoo del Toxoplasma e si è quindi sviluppata l’immunità: attraverso gli esami del sangue.
Nelle analisi prescritte di routine alle donne in attesa, viene inserita la ricerca degli IgG e degli IgM. I primi dicono se c’è stata un’infezione in passato mentre le IgM attestano che la toxoplasmosi è tuttora in corso e dunque può passare anche al feto. Se entrambi gli esami sono negativi, significa che la donna non ha l’infezione, ma non ha sviluppato nemmeno gli anticorpi e quindi, se contagiata nel corso dei nove mesi, potrebbe ammalarsi. Per tenere monitorata la situazione, chi non è immune durante la gravidanza deve ripetere l’esame ogni mese e mezzo circa. In modo che, in caso di infezione, si possa ricorrere alla terapia antibiotica per bloccare il contagio del nascituro o limitare i danni alla sua salute.
Quali rischi corre il bambino
Se il contagio avviene durante la gestazione, le prime 26 settimane di gravidanza sono le più a rischio. Nel primo e nel secondo trimestre, infatti, si formano e si sviluppano gli organi del feto. Se la futura madre si ammala, nel primo trimestre va incontro al rischio di un aborto o di una morte fetale, mentre nel secondo trimestre il feto può subire danni gravi come encefalite, idrocefalo e calcificazioni cerebrali, infezioni oculari, sordità, polmonite, malformazioni cardiache. Meno grave se la madre si ammala durante il terzo trimestre, un evento che non è comunque scevro di pericoli: il bambino può infatti sviluppare una forma di anemia, che può manifestarsi in maniera anche severa.
Carne cruda in gravidanza? No, solo dopo il parto
Come detto all’inizio, la via di trasmissione più comune della malattia è il cibo. È dunque soprattutto all’alimentazione che bisogna prestare attenzione: il divieto di mangiare carne cruda di qualsiasi animale è assoluto. Per questo, occorre dare l’addio, fin dopo il parto, al carpaccio, alla tartare, a salsicce e salami in gravidanza. Occorre evitare anche prosciutto crudo, coppa o bresaola in gravidanza, se non sono ben stagionati: importante controllare che abbiano un’etichetta DOP (denominazione di origine protetta).
Meglio orientarsi sul prosciutto cotto, più sicuro perché prodotto con carni cotte. È infatti la cottura a distruggere completamente il protozoo, che potrebbe essere presente nelle carni, quindi è bene cucinare a puntino tutti i pezzi di carne presenti nel menù della futura mamma. E quando è la stessa donna in attesa a fare la cuoca in casa, deve avere l’accortezza di non portare inavvertitamente le mani alla bocca dopo aver toccato la carne cruda, ma di lavarle subito con acqua e sapone. Attenzione, inoltre, agli ortaggi, che potrebbero essere stati contaminati da feci di animali infetti: prima del consumo, frutta e verdura vanno lavate in acqua e bicarbonato per almeno 20-30 minuti.
Il gatto può rimanere in casa
Sul banco degli imputati, responsabile di diffondere la toxoplasmosi c’è da sempre il micio, nelle cui feci, se malato, si celano le uova del Toxoplasma. Quando si accorgono di aspettare un bambino e di non aver sviluppato l’immunità nei confronti della toxoplasmosi, molte donne che vivono con un micio vengono assalite dal dubbio: non sarà meglio liberarsi del gatto o affidarlo alle cure di altri, almeno fino a dopo il parto?
Sono soluzioni drastiche, per niente necessarie. Il gatto domestico, che vive in casa e si ciba solo di scatolette o croccantini e non di carne cruda, difficilmente sarà infetto. È certo, però, che per azzerare completamente il rischio del contagio occorrono degli accorgimenti. Una delle regole da rispettare è di non pulire la cassettina igienica del micio di casa; questo compito può essere svolto dal futuro papà. Se proprio non ci sono alternative, la futura mamma può provvedere alla pulizia, ma non prima di essersi infilata guanti di plastica usa e getta e a patto, poi, di lavarsi accuratamente le mani. Sono in tanti a sostenere che il gatto non bisognerebbe neppure toccarlo se si è incinte e non immunizzate alla toxoplasmosi. Non è vero. È sufficiente la normale regola igienica che si adotta per prevenire tutte le malattie virali: lavarsi spesso le mani durante il giorno con acqua e sapone.
Diverso il discorso per i mici randagi o per i gatti che non si conoscono. Con loro è buona norma evitare incontri ravvicinati e, se per caso capita di toccarli, non c’è che una soluzione: lavare bene le mani.
Fonte http://www.dolceattesa.com/gravidanza/toxoplasmosi-in-gravidanza_alimentazione_prevenzione_salute-ed-esami/
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