martedì 4 luglio 2017

Riproduzione assistita: il dolore della diagnosi

      Quando sentì parlare di bebè in provetta per la prima volta, avevo 18 anni e lessi un articulo si Amandine, la prima bebè in provetta che nacque in Francia nel 1982, “quel bebè arrivato da un’altra parte”. Le reazioni che suscitarono questo “rammendo” (così si diceva all’epoca) furono tante. Qualche anno più tardi, quando stavo pensando di diventare mamma e mi parlarono di fecondazione in vitro, provai qualcosa che ancora oggi mi fa male.

      Dopo il nostro matrimonio, concepire un bambino ci sembrava una cosa facile e evidente. Tuttavia, i mesi passavano e mi resi conto rapidamente che qualcosa non andava. Lo sentivo. I mesi senza gravidanza diventarono anni di delusione, di rabbia e di ira. Anni nei quali ogni mestruazione era sinonimo di lacrime. Anni nei quali fare le congratulazioni a ogni mia amica per la sua gravidanza mi faceva sentire incapace, anormale, sterile e perfino, a volte, disumana. Andammo a parlare con il medico. La notizia fu dura e difficile da accettare.

      Ero così convinta che non non avremmo mai fatto parte delle statistiche di coppie infertili… In quel momento, mi sentivo incapace di assumere l’inseminazione artificiale e la fecondazione in vitro, di accettare che la medicina si sarebbe intromessa nel nostro rapporto di coppia e nella nostra intimità per concepire. Io volevo una notte di amore, piantare il semino, e nove mesi dopo raccogliere il frutto del lavoro e della pazienza.

      Un sacco di domande sgorgavano senza sosta nella mia testa: sarei stata una donna normale senza un bambino nel mio ventre? Avrei vissuto la mia femminilità con normalità? E soprattutto: avrei avuto un posto nella società se non fossi riuscita a procreare? E il mio partner? Avrebbe voluto restare con me se non fossimo riusciti a avere figli? E se mi fossi sposata con un’altra persona, avremmo avuto gli stessi problemi?…

      I giorni successivi alla diagnosi del medico, piansi. Mi faceva male tutto. Mi resi conto che stava per arrivare qualcosa che avrebbe cambiato la rotta della mia vita. Avevo paura e dubitavo di tutto, e soprattutto di me stessa. Ma poiché non potevo concepire la mia vita senza figli, un po’ alla volta dissi addio al “bambino senza notte d’amore” e accettai che se volevamo avere un bambino sarebbe stato concepito in modo artificiale. La cosa importante non sarebbe stato il modo in cui venisse concepito. L’unica cosa che contava era lo straordinario amore che gli avremmo offerto.

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