“Sì, una donna con HIV può avere figli, e se la malattia è tenuta bene sotto controllo con le terapie antiretrovirali, a parte qualche controllo in più la sua gravidanza non sarà poi molto diversa da quella di una donna sana, senza l'infezione”. Parola della ginecologa Beatrice Tassis, referente per le malattie infettive in gravidanza della Clinica Mangiagalli di Milano.
Partire con il piede giusto
Se il messaggio generale è positivo, però, non significa che non ci sia nulla di cui preoccuparsi. Il rischio principale per una donna sieropositiva è quello di trasmettere l'infezione al feto, ma se l'infezione è ben controllata e la viremia (carica di virus nel sangue) è nulla questo rischio è molto basso: inferiore all'1%.
Prerequisito essenziale perché tutto vada nel migliore dei modi è dunque partire da una condizione in cui la malattia è già sotto controllo, il che implica una pianificazione della gravidanza stessa. Invece, secondo i dati raccolti dall'Istituto superiore di sanità circa metà delle gravidanze nelle donne con HIV risulta non pianificata. “Per non parlare del fatto che ancora oggi il 20% circa delle donne in gravidanza con infezione da HIV scopre di essere sieropositiva proprio durante la gravidanza stessa” ricorda Giulia Masuelli, responsabile dell'ambulatorio di malattie infettive in gravidanza dell'Ospedale Sant'Anna di Torino. È chiaro che si tratta di una condizione non ottimale, sia dal punto di vista psicologico sia perché all'inizio la gestione della terapia può risultare complicata.
Quindi, per chi sa di essere sieropositiva l'ideale è cominciare a pensare a una gravidanza solo quando il trattamento antiretrovirale è a regime, la carica virale è negativa e lo stato immunologico generale è buono: condizione necessaria per affrontare al meglio un momento 'impegnativo' come è appunto l'attesa di un bambino, anche dal punto di vista immunitario.
“Per tutte le altre donne, il consiglio è di effettuare il test dell'HIV prima di cominciare a cercare una gravidanza, perché scoprire dopo un'eventuale sieropositività è peggio” afferma Tassis.
Occhio alle vaccinazioni
“Sempre in fase preconcezionale è anche molto importante valutare lo stato rispetto ad altre malattie infettive come rosolia, varicella, morbillo, toxoplasmosi e citomegalovirus, cioè verificare, tramite appositi test, se si è immuni o meno. Questo perché sono malattie che, se contratte in gravidanza da donne sieropositive sono ancora più pericolose rispetto a quanto già lo siano per le donne non sieropositive” sottolinea Tassis.
“Se non si è immuni, ove possibile occorre programmare le opportune vaccinazioni prima di avviare la ricerca di una gravidanza. Per toxoplasmosi e citomegalovirus bisogna invece informare le donne 'negative' sui comportamenti da adottare per evitare il rischio di contagio in gravidanza”.
E a proposito di vaccinazioni, se la gravidanza parte anche in caso di sieropositività bisogna mettere in conto quelle consigliate dal Ministero della Salute per tutte le donne incinte, e cioè anti-influenzale e anti-pertosse.
Mai interrompere la terapia
A test positivo, l'impegno con i trattamenti deve continuare. “La terapia antiretrovirale deve essere seguita con costanza per tutta la gravidanza” precisa Masuelli, che rassicura sugli eventuali rischi per il feto di molti di questi farmaci. “I dati disponibili dicono che quelli più noti e in uso da più tempo non dovrebbero comportare particolari rischi malformativi. Se la donna sta usando farmaci più nuovi, sui quali abbiamo meno informazioni, probabilmente l'infettivologo indicherà un cambio di terapia”.
Il percorso della gravidanza
Secondo le Linee guida del Ministero della salute sull'utilizzo della terapia antiretrovirale e la gestione delle persone con infezione da HIV, la donna incinta sieropositiva dovrebbe essere seguita da un'équipe multidisciplinare composta da ginecologo, infettivologo, pediatra, ma anche psicologo, assistente sociale, mediatore culturale (nella maggioranza dei casi si tratta di donne di origine straniera), più eventualmente esperti di associazioni di persone con HIV.
La gravidanza viene per definizione classificata come a rischio, dunque dovrebbe essere seguita in un centro di secondo livello. "In pratica si programmano controlli periodici, ogni tre mesi, per verificare la carica virale e lo stato immunologico” spiega Masuelli. “Inoltre, poiché i farmaci antiretrovirali potrebbero comportare un lieve aumento del rischio di alcune complicazioni ostetriche come parto pretermine, diabete gestazionale e colestasi gravidica, si effettuano controlli periodici anche su questi fronti”.
Se la malattia è sotto controllo, però, in genere non si verificano più complicazioni di quanto accada nel resto delle donne incinte.
Il parto
“Se la carica virale si mantiene azzerata fino a tre settimane prima del parto e lo stato immunologico è buono, oggi è considerato possibile anche il parto per via vaginale, che veniva invece sconsigliato fino a qualche anno fa” spiega Masuelli. “A patto, ovviamente, che non ci siano altre complicazioni ostetriche che rendono più opportuno il cesareo”.
Meglio, per ora, il latte artificiale
Per quanto riguarda l'allattamento al seno, questo è attualmente controindicato, almeno nei paesi sviluppati dove le alternative (cioè il latte formulato) sono sicure e sostenibili dal punto di vista economico.
“Può darsi però che in futuro cambieremo atteggiamento anche su questo come abbiamo fatto con la modalità del parto” commenta Tassis. “Alcune ricerche in corso, infatti, sembrano indicare che in condizioni di controllo della malattia anche l'allattamento al seno possa essere relativamente sicuro. Per il momento, però, rimane sconsigliato”.
Altre fonti per questo articolo: Materiale informativo della Lega italiana per la lotta contro l'Aids; Articolo dei Centri per il controllo delle malattie americani; Linee guida sull'utilizzo della terapia antiretrovirale e la gestione delle persone con infezione da HIV del Ministero della salute; Relazione al Parlamento 2017 sullo stato di attuazione delle strategie attivate per fronteggiare l'infezione da HIV.
Fonte https://www.nostrofiglio.it/gravidanza/hiv-in-gravidanza-evitare-rischi-a-mamma-e-bebe
Partire con il piede giusto
Se il messaggio generale è positivo, però, non significa che non ci sia nulla di cui preoccuparsi. Il rischio principale per una donna sieropositiva è quello di trasmettere l'infezione al feto, ma se l'infezione è ben controllata e la viremia (carica di virus nel sangue) è nulla questo rischio è molto basso: inferiore all'1%.
Prerequisito essenziale perché tutto vada nel migliore dei modi è dunque partire da una condizione in cui la malattia è già sotto controllo, il che implica una pianificazione della gravidanza stessa. Invece, secondo i dati raccolti dall'Istituto superiore di sanità circa metà delle gravidanze nelle donne con HIV risulta non pianificata. “Per non parlare del fatto che ancora oggi il 20% circa delle donne in gravidanza con infezione da HIV scopre di essere sieropositiva proprio durante la gravidanza stessa” ricorda Giulia Masuelli, responsabile dell'ambulatorio di malattie infettive in gravidanza dell'Ospedale Sant'Anna di Torino. È chiaro che si tratta di una condizione non ottimale, sia dal punto di vista psicologico sia perché all'inizio la gestione della terapia può risultare complicata.
Quindi, per chi sa di essere sieropositiva l'ideale è cominciare a pensare a una gravidanza solo quando il trattamento antiretrovirale è a regime, la carica virale è negativa e lo stato immunologico generale è buono: condizione necessaria per affrontare al meglio un momento 'impegnativo' come è appunto l'attesa di un bambino, anche dal punto di vista immunitario.
“Per tutte le altre donne, il consiglio è di effettuare il test dell'HIV prima di cominciare a cercare una gravidanza, perché scoprire dopo un'eventuale sieropositività è peggio” afferma Tassis.
Occhio alle vaccinazioni
“Sempre in fase preconcezionale è anche molto importante valutare lo stato rispetto ad altre malattie infettive come rosolia, varicella, morbillo, toxoplasmosi e citomegalovirus, cioè verificare, tramite appositi test, se si è immuni o meno. Questo perché sono malattie che, se contratte in gravidanza da donne sieropositive sono ancora più pericolose rispetto a quanto già lo siano per le donne non sieropositive” sottolinea Tassis.
“Se non si è immuni, ove possibile occorre programmare le opportune vaccinazioni prima di avviare la ricerca di una gravidanza. Per toxoplasmosi e citomegalovirus bisogna invece informare le donne 'negative' sui comportamenti da adottare per evitare il rischio di contagio in gravidanza”.
E a proposito di vaccinazioni, se la gravidanza parte anche in caso di sieropositività bisogna mettere in conto quelle consigliate dal Ministero della Salute per tutte le donne incinte, e cioè anti-influenzale e anti-pertosse.
Mai interrompere la terapia
A test positivo, l'impegno con i trattamenti deve continuare. “La terapia antiretrovirale deve essere seguita con costanza per tutta la gravidanza” precisa Masuelli, che rassicura sugli eventuali rischi per il feto di molti di questi farmaci. “I dati disponibili dicono che quelli più noti e in uso da più tempo non dovrebbero comportare particolari rischi malformativi. Se la donna sta usando farmaci più nuovi, sui quali abbiamo meno informazioni, probabilmente l'infettivologo indicherà un cambio di terapia”.
Il percorso della gravidanza
Secondo le Linee guida del Ministero della salute sull'utilizzo della terapia antiretrovirale e la gestione delle persone con infezione da HIV, la donna incinta sieropositiva dovrebbe essere seguita da un'équipe multidisciplinare composta da ginecologo, infettivologo, pediatra, ma anche psicologo, assistente sociale, mediatore culturale (nella maggioranza dei casi si tratta di donne di origine straniera), più eventualmente esperti di associazioni di persone con HIV.
La gravidanza viene per definizione classificata come a rischio, dunque dovrebbe essere seguita in un centro di secondo livello. "In pratica si programmano controlli periodici, ogni tre mesi, per verificare la carica virale e lo stato immunologico” spiega Masuelli. “Inoltre, poiché i farmaci antiretrovirali potrebbero comportare un lieve aumento del rischio di alcune complicazioni ostetriche come parto pretermine, diabete gestazionale e colestasi gravidica, si effettuano controlli periodici anche su questi fronti”.
Se la malattia è sotto controllo, però, in genere non si verificano più complicazioni di quanto accada nel resto delle donne incinte.
Il parto
“Se la carica virale si mantiene azzerata fino a tre settimane prima del parto e lo stato immunologico è buono, oggi è considerato possibile anche il parto per via vaginale, che veniva invece sconsigliato fino a qualche anno fa” spiega Masuelli. “A patto, ovviamente, che non ci siano altre complicazioni ostetriche che rendono più opportuno il cesareo”.
Meglio, per ora, il latte artificiale
Per quanto riguarda l'allattamento al seno, questo è attualmente controindicato, almeno nei paesi sviluppati dove le alternative (cioè il latte formulato) sono sicure e sostenibili dal punto di vista economico.
“Può darsi però che in futuro cambieremo atteggiamento anche su questo come abbiamo fatto con la modalità del parto” commenta Tassis. “Alcune ricerche in corso, infatti, sembrano indicare che in condizioni di controllo della malattia anche l'allattamento al seno possa essere relativamente sicuro. Per il momento, però, rimane sconsigliato”.
Altre fonti per questo articolo: Materiale informativo della Lega italiana per la lotta contro l'Aids; Articolo dei Centri per il controllo delle malattie americani; Linee guida sull'utilizzo della terapia antiretrovirale e la gestione delle persone con infezione da HIV del Ministero della salute; Relazione al Parlamento 2017 sullo stato di attuazione delle strategie attivate per fronteggiare l'infezione da HIV.
Fonte https://www.nostrofiglio.it/gravidanza/hiv-in-gravidanza-evitare-rischi-a-mamma-e-bebe
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