L’ovodonazione è una tecnica di Procreazione medicalmente assistita (Pma) di tipo eterologo, che consiste nella donazione di gameti femminili da parte di una donatrice a una coppia che ricerca una gravidanza. In Italia, la Pma di tipo eterologo avviene per il 78% con ovodonazione (da ovociti congelati o da embrioni congelati da donazione di ovociti), per circa il 20% con donazione di spermatozoi e per la restante quota del 2-3% con donazione di entrambi i gameti. Ne abbiamo parlato con la professoressa Maria Elisabetta Coccia, Direttore del centro per la Procreazione Medicalmente Assistita dell’ospedale fiorentino di Careggi, che è stato il primo centro pubblico italiano ad offrire la Pma.
Il problema: mancano gli ovociti
Uno dei grandi problemi legati all’ovodonazione è la difficoltà di reperimento degli ovociti. Perché? “In Italia, in generale, manca una vera e propria cultura della donazione”, dice Maria Elisabetta Coccia. “Inoltre, alla donatrice, nel nostro Paese, non viene garantito un rimborso, o comunque un dovuto atto di riconoscimento, per quello che è un intervento chirurgico”. Chi vuole donare gli ovociti, infatti, deve sottoporsi a una stimolazione ovarica e, poi, a un prelievo chirurgico di ovuli: una procedura non da poco, che difficilmente invoglia le giovani donne. “L’offerta è dunque ridotta, mentre la domanda è in crescita, complice l’aumento dell’età media delle donne che iniziano un percorso di Pma e il fatto che molte comincino a scegliere l’Italia al posto di altri Paesi”.
Spagna, la maggiore fornitrice
Il risultato di questa situazione? L’Italia è costretta a importare la quasi totalità (circa il 97%) dei gameti femminili necessari alla fecondazione assistita. “La maggior parte degli ovociti utilizzati nei centri pubblici italiani che offrono la Pma proviene dalla Spagna, seguita dalla Repubblica Ceca e dalla Grecia”, spiega la professoressa. I pochi ovociti italiani derivano dall’egg sharing: le coppie che si sottopongono alla fecondazione assistita donano, cioè, gli ovociti “avanzati” dopo i loro trattamenti.
Ovodonazione: come funziona?
In generale, le tecniche più usate in Italia per l’ovodonazione sono due: importare i gameti da banche estere oppure inviare il gamete maschile al centro estero, dove avviene la fecondazione in vitro con ovocita donato, per poi riportare in Italia l’embrione fecondato in forma di blastocisti congelato. “Questa seconda tecnica è preferita da quei centri privati recentemente acquisiti da multinazionali estere che stanno investendo in Italia”, spiega la professoressa. “Nel nostro centro, ad esempio, cooperiamo con i laboratori di banche estere in contatto strettissimo: loro ci inviano l’ovocita, e poi procediamo alla fecondazione in vitro/Icsi nei nostri laboratori”.
Le percentuali di successo
Quando si ricorre all’ovodonazione, le percentuali di successo sono più alte rispetto alle tecniche omologhe, quelle, cioè, che non utilizzano gameti esterni alla coppia. “Nel nostro centro, ad esempio, in 4 anni di attività abbiamo avuto il 37% di gravidanze instaurate nelle donne che si sono sottoposte a eterologa con ovodonazione, il 34% per le eterologhe con donazione di gameti maschili, il 38% con doppia donazione”. Dati che si discostano di poco dalle medie nazionali, secondo le quali la donazione di seme ha portato a una percentuale di gravidanze, nelle donne sottoposte a Pma, del 38,8%, mentre quella di ovociti ha avuto successo nel 33,3% dei casi.
Eterologa in aumento: quali soluzioni?
In Italia, le coppie che si sono sottoposte a fecondazione eterologa in un anno (tra il 2015 e il 2016, ultimi dati disponibili) sono aumentate in modo consistente, passando da 2.462 a 5.450 (+121%). I bambini nati grazie a questa tecnica, nello stesso periodo, sono passati da 601 a 1.457. La domanda, dunque, è in grande crescita, ma le risposte arrancano. “Occorrerebbe investire sulla tutela della salute riproduttiva della donna, fin da quando è molto giovane, per intercettare precocemente eventuali malattie che possono minarla: spesso, purtroppo, ci troviamo a incontrarle, e intervenire, quando la riserva ovarica è già compromessa”.
E per invogliare alla donazione cosa si può fare? “Una strada possibile è quella di provare a reclutare giovani donatrici con la formula “dona e preserva”. Proprio la Regione Toscana, tradizionalmente pioniera in materia di Pma, ha recentemente deliberato in questo senso: le donne che scelgono di donare possono entrare in un percorso di social freezing, con la possibilità di congelare i propri ovociti per sé, donandone al contempo alcuni
A chi rivolgersi per donare?
Cosa deve fare una donna che, in Italia, volesse optare per questo atto generoso? Individuare una realtà di riferimento non è semplice. “Il primo passaggio può essere quello di parlarne al proprio ginecologo e cercare informazioni sui siti regionali”, suggerisce l’esperta.
Ci sono, comunque, requisiti molto rigidi per diventare donatrici: “Il primo è l’età, che deve essere inferiore ai 35 anni: meglio ancora sarebbe entro i 30, per essere paragonabili alle banche estere. Occorre, poi, sottoporsi a una visita ginecologica, a una valutazione genetica e a una psicologica, oltre a una serie di esami che devono analizzare, tra gli altri, anche il profilo infettivologico”, spiega la professoressa. “Presso l’Aou Careggi questi esami, per la donatrice, sono gratuiti già dal 2014”. In questo senso, la donazione può costituire anche un’opportunità di salute per la donatrice stessa, che si giova di queste consulenze per la pianificazione futura di eventuali gravidanze.
Italia a macchia di leopardo
L’offerta pubblica di Pma, inoltre, è molto diversa da regione a regione, con costi e criteri di accesso differenti. “La Toscana si è mossa già nel settembre del 2014, all’indomani della sentenza della Corte Costituzionale, offrendola per la prima volta in Italia in un centro pubblico, seguita poi dal Friuli Venezia Giulia. Alcune regioni, come la Calabria, non hanno tutt’ora un’offerta pubblica e non rilasciano il nulla osta alle coppie che vogliono rivolgersi ad altre regioni”, spiega la professoressa. Diverso anche il tetto anagrafico sopra il quale non è possibile accedere alla Pma in centri pubblici pagando solo il ticket: ad esempio, il Veneto arriva a 50 anni, mentre la maggior parte ha scelto come tetto quello del compimento dei 43 anni.
Fonte https://www.dolceattesa.com/rimanere-incinta/ovodonazione-che-fatica-in-italia_fecondazione-assistita/
Il problema: mancano gli ovociti
Uno dei grandi problemi legati all’ovodonazione è la difficoltà di reperimento degli ovociti. Perché? “In Italia, in generale, manca una vera e propria cultura della donazione”, dice Maria Elisabetta Coccia. “Inoltre, alla donatrice, nel nostro Paese, non viene garantito un rimborso, o comunque un dovuto atto di riconoscimento, per quello che è un intervento chirurgico”. Chi vuole donare gli ovociti, infatti, deve sottoporsi a una stimolazione ovarica e, poi, a un prelievo chirurgico di ovuli: una procedura non da poco, che difficilmente invoglia le giovani donne. “L’offerta è dunque ridotta, mentre la domanda è in crescita, complice l’aumento dell’età media delle donne che iniziano un percorso di Pma e il fatto che molte comincino a scegliere l’Italia al posto di altri Paesi”.
Spagna, la maggiore fornitrice
Il risultato di questa situazione? L’Italia è costretta a importare la quasi totalità (circa il 97%) dei gameti femminili necessari alla fecondazione assistita. “La maggior parte degli ovociti utilizzati nei centri pubblici italiani che offrono la Pma proviene dalla Spagna, seguita dalla Repubblica Ceca e dalla Grecia”, spiega la professoressa. I pochi ovociti italiani derivano dall’egg sharing: le coppie che si sottopongono alla fecondazione assistita donano, cioè, gli ovociti “avanzati” dopo i loro trattamenti.
Ovodonazione: come funziona?
In generale, le tecniche più usate in Italia per l’ovodonazione sono due: importare i gameti da banche estere oppure inviare il gamete maschile al centro estero, dove avviene la fecondazione in vitro con ovocita donato, per poi riportare in Italia l’embrione fecondato in forma di blastocisti congelato. “Questa seconda tecnica è preferita da quei centri privati recentemente acquisiti da multinazionali estere che stanno investendo in Italia”, spiega la professoressa. “Nel nostro centro, ad esempio, cooperiamo con i laboratori di banche estere in contatto strettissimo: loro ci inviano l’ovocita, e poi procediamo alla fecondazione in vitro/Icsi nei nostri laboratori”.
Le percentuali di successo
Quando si ricorre all’ovodonazione, le percentuali di successo sono più alte rispetto alle tecniche omologhe, quelle, cioè, che non utilizzano gameti esterni alla coppia. “Nel nostro centro, ad esempio, in 4 anni di attività abbiamo avuto il 37% di gravidanze instaurate nelle donne che si sono sottoposte a eterologa con ovodonazione, il 34% per le eterologhe con donazione di gameti maschili, il 38% con doppia donazione”. Dati che si discostano di poco dalle medie nazionali, secondo le quali la donazione di seme ha portato a una percentuale di gravidanze, nelle donne sottoposte a Pma, del 38,8%, mentre quella di ovociti ha avuto successo nel 33,3% dei casi.
Eterologa in aumento: quali soluzioni?
In Italia, le coppie che si sono sottoposte a fecondazione eterologa in un anno (tra il 2015 e il 2016, ultimi dati disponibili) sono aumentate in modo consistente, passando da 2.462 a 5.450 (+121%). I bambini nati grazie a questa tecnica, nello stesso periodo, sono passati da 601 a 1.457. La domanda, dunque, è in grande crescita, ma le risposte arrancano. “Occorrerebbe investire sulla tutela della salute riproduttiva della donna, fin da quando è molto giovane, per intercettare precocemente eventuali malattie che possono minarla: spesso, purtroppo, ci troviamo a incontrarle, e intervenire, quando la riserva ovarica è già compromessa”.
E per invogliare alla donazione cosa si può fare? “Una strada possibile è quella di provare a reclutare giovani donatrici con la formula “dona e preserva”. Proprio la Regione Toscana, tradizionalmente pioniera in materia di Pma, ha recentemente deliberato in questo senso: le donne che scelgono di donare possono entrare in un percorso di social freezing, con la possibilità di congelare i propri ovociti per sé, donandone al contempo alcuni
A chi rivolgersi per donare?
Cosa deve fare una donna che, in Italia, volesse optare per questo atto generoso? Individuare una realtà di riferimento non è semplice. “Il primo passaggio può essere quello di parlarne al proprio ginecologo e cercare informazioni sui siti regionali”, suggerisce l’esperta.
Ci sono, comunque, requisiti molto rigidi per diventare donatrici: “Il primo è l’età, che deve essere inferiore ai 35 anni: meglio ancora sarebbe entro i 30, per essere paragonabili alle banche estere. Occorre, poi, sottoporsi a una visita ginecologica, a una valutazione genetica e a una psicologica, oltre a una serie di esami che devono analizzare, tra gli altri, anche il profilo infettivologico”, spiega la professoressa. “Presso l’Aou Careggi questi esami, per la donatrice, sono gratuiti già dal 2014”. In questo senso, la donazione può costituire anche un’opportunità di salute per la donatrice stessa, che si giova di queste consulenze per la pianificazione futura di eventuali gravidanze.
Italia a macchia di leopardo
L’offerta pubblica di Pma, inoltre, è molto diversa da regione a regione, con costi e criteri di accesso differenti. “La Toscana si è mossa già nel settembre del 2014, all’indomani della sentenza della Corte Costituzionale, offrendola per la prima volta in Italia in un centro pubblico, seguita poi dal Friuli Venezia Giulia. Alcune regioni, come la Calabria, non hanno tutt’ora un’offerta pubblica e non rilasciano il nulla osta alle coppie che vogliono rivolgersi ad altre regioni”, spiega la professoressa. Diverso anche il tetto anagrafico sopra il quale non è possibile accedere alla Pma in centri pubblici pagando solo il ticket: ad esempio, il Veneto arriva a 50 anni, mentre la maggior parte ha scelto come tetto quello del compimento dei 43 anni.
Fonte https://www.dolceattesa.com/rimanere-incinta/ovodonazione-che-fatica-in-italia_fecondazione-assistita/
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