Anni fa, dopo la laurea e un primo lavoro, partii per un viaggio di tre mesi nell’Alto Egitto. Un’esperienza da vivere da sola e con lo zaino in spalla per raccogliere storie di donne di religioni diverse in un diario di viaggio. Le prime che avvicinai erano francesi, inglesi, olandesi che si erano trasferite per amore sulla West Bank, la sponda più selvaggia di Luxor. Non avevano mai imparato l’arabo e, ogni giovedì, si ritrovavano per bere un tè.
E se le donne non potessero votare?
Le loro storie assomigliavano a tanti script, copioni – così la psicologia chiama gli eventi che si ripetono sempre uguali o in modo prevedibile. Jeanne, in particolare, raccontava dell’uomo che aveva conosciuto per caso in vacanza e che aveva giurato di amarla, al punto da convincerla a restare e a diventare sua moglie. Jeanne aveva 62 anni, il suo nuovo marito 23 e minacciava di sposarsi in seconde nozze con una ragazza del posto, che avrebbe potuto dargli dei figli. Lo stesso sarebbe successo a Mary, l’australiana, alla tedesca Ira, all’italiana Marta e all’olandese Anka.
Esiste una parola che definisce questa situazione: Bezness, dal tedesco Beziehung, relazione, e dall’inglese business, affari. Fare affari con le relazioni. L’affare per i giovani mariti era chiaro: il matrimonio dava loro una carta d’invito per l’Europa e, insieme, un discreto gruzzolo da investire nella licenza di un taxi o in un bazar. Ma dove stava il business di Jeanne, Ira, Marta e Anka? Sesso? Piacevole, forse, ma insufficiente a giustificare scelte così totalizzanti.
Alla fine mi sono detta che alla base di quelle decisioni c’eravamo noi, che viviamo dalla “parte giusta” del Mediterraneo e usiamo le nostre opinioni per segnare un limite oltre il quale una donna smette di valere: «Maledetta Europa che quando invecchi ti dà il benservito», si sfogava Jeanne. «L’uomo che hai avuto accanto diventa distratto e i figli non hanno più bisogno di te. Al lavoro ti dicono grazie, hai fatto abbastanza. Io non ci sto! Sono stata una brava figlia, una buona moglie, una madre presente, una lavoratrice affidabile. A un certo punto mi sono fermata e ho chiesto: posso essere amata comunque? Sono venuta qui e ho ricominciato. Ti sembra un peccato, ti sembra troppo?».
La domanda è legata al contesto occidentale in cui siamo cresciute e ha a che fare con il modo di guardare le donne e di guardarci. Siamo amate in quanto giovani, belle, fertili, in quanto corpi che a 25 anni sono straordinari e che a 50 non lo sono più. Dal mio viaggio mi sono portata dietro anche le parole dell’egiziana Fatima, «dispiaciuta per le donne occidentali». Perché? «Beh, sono chiuse dentro corpi che non devono mai invecchiare e ingrassare». La visione di un corpo immutabile può essere la più grande di tutte le prigioni. E allora evviva le persone – uomini e donne – capaci di rivoluzionare lo sguardo.
Fonte https://www.elle.com/it/magazine/a26797245/rapporto-con-il-nostro-corpo/
E se le donne non potessero votare?
Le loro storie assomigliavano a tanti script, copioni – così la psicologia chiama gli eventi che si ripetono sempre uguali o in modo prevedibile. Jeanne, in particolare, raccontava dell’uomo che aveva conosciuto per caso in vacanza e che aveva giurato di amarla, al punto da convincerla a restare e a diventare sua moglie. Jeanne aveva 62 anni, il suo nuovo marito 23 e minacciava di sposarsi in seconde nozze con una ragazza del posto, che avrebbe potuto dargli dei figli. Lo stesso sarebbe successo a Mary, l’australiana, alla tedesca Ira, all’italiana Marta e all’olandese Anka.
Esiste una parola che definisce questa situazione: Bezness, dal tedesco Beziehung, relazione, e dall’inglese business, affari. Fare affari con le relazioni. L’affare per i giovani mariti era chiaro: il matrimonio dava loro una carta d’invito per l’Europa e, insieme, un discreto gruzzolo da investire nella licenza di un taxi o in un bazar. Ma dove stava il business di Jeanne, Ira, Marta e Anka? Sesso? Piacevole, forse, ma insufficiente a giustificare scelte così totalizzanti.
Alla fine mi sono detta che alla base di quelle decisioni c’eravamo noi, che viviamo dalla “parte giusta” del Mediterraneo e usiamo le nostre opinioni per segnare un limite oltre il quale una donna smette di valere: «Maledetta Europa che quando invecchi ti dà il benservito», si sfogava Jeanne. «L’uomo che hai avuto accanto diventa distratto e i figli non hanno più bisogno di te. Al lavoro ti dicono grazie, hai fatto abbastanza. Io non ci sto! Sono stata una brava figlia, una buona moglie, una madre presente, una lavoratrice affidabile. A un certo punto mi sono fermata e ho chiesto: posso essere amata comunque? Sono venuta qui e ho ricominciato. Ti sembra un peccato, ti sembra troppo?».
La domanda è legata al contesto occidentale in cui siamo cresciute e ha a che fare con il modo di guardare le donne e di guardarci. Siamo amate in quanto giovani, belle, fertili, in quanto corpi che a 25 anni sono straordinari e che a 50 non lo sono più. Dal mio viaggio mi sono portata dietro anche le parole dell’egiziana Fatima, «dispiaciuta per le donne occidentali». Perché? «Beh, sono chiuse dentro corpi che non devono mai invecchiare e ingrassare». La visione di un corpo immutabile può essere la più grande di tutte le prigioni. E allora evviva le persone – uomini e donne – capaci di rivoluzionare lo sguardo.
Fonte https://www.elle.com/it/magazine/a26797245/rapporto-con-il-nostro-corpo/
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