lunedì 31 dicembre 2018

Cosa mangiare a Natale in gravidanza: il menu a prova di pancione

cosa mangiare in gravidanza a Natale         La gravidanza si dice sia uno stato di grazia per la donna ed in parte questa affermazione corrisponde a verità, ma essere incinta prevede anche moltissimi divieti, sopratutto per quanto riguarda il cibo che si può assumete in stato interessante, in particolar modo se non si è contratta la toxoplasmosi, patologia molto pericolosa se contratta durante la gestazione che si può trasmettere attraverso cibo infetto.

        Evitare tutte le verdure e la frutta non lavate accuratamente con bicarbonato di sodio o, come consigliano alcuni ginecologi, addirittura con una soluzione di acqua e amuchina, lasciandovi ammollo frutta e verdura per 10 minuti per poi sciacquarla abbondantemente.

        Altri cibi da evitare in modo scrupoloso, i frutti di mare, i crostacei, i salumi, gli insaccati e tutti i cibi non completamente cotti, come le uova crude e tutte le preparazioni che le contemplano come per esempio il tiramisù o alcuni primi piatti come la Carbonara.  Ovvio che l’alcool per i mesi di gravidanza e anche durante l’allattamento sarà bene evitarlo.

        Essere incinta il periodo Natalizio non vuol dire per forza rinunciare al gusto dei pranzi in famiglia nei giorni di festa. Si dovranno però evitare i cibi ‘proibiti’ preferendo un menu con piatti ben cotti e con cibi permessi durante la gestazione, per scongiurare del tutto il contagio della toxoplasmosi.

        Dagli antipasti al dolce però, non mancheranno piatti succulenti che conquisteranno il palato della futura mamma. Tante idee anche per chi dovrà avere come ospite una donna incinta e non vuol sbagliare nemmeno una portata!

Fonte https://www.chedonna.it/2018/12/10/cosa-mangiare-a-natale-in-gravidanza-il-menu-a-prova-di-pancione/

Congedo di maternità 2019: astensione fino al nono mese di gravidanza, ecco tutte le novità

Congedo maternità INPS: cos’è e come funziona
Gravidanza e vaccino antinfluenzale         Il congedo maternità con INPS è la astensione obbligatoria da parte della neo mamma dal lavoro. Il congedo di maternità è obbligatorio per 5 mesi: due mesi prima del parto e 3 mesi dopo il parto. Il congedo può essere prorogato dalla Direzione territoriale del Lavoro in caso di mansione incompatibile con la gravidanza. Se la madre, in presenza di determinate cause, non posso usufruire del congedo, l’astensione del Lavoro obbligatoria spetta al padre e si tratta quindi di congedo di paternità.


         Il congedo spetta solo per le nuove nascite, ma anche in caso di adozione o affidamento di uno di uno o più minori.

Congedo di maternità INPS: a chi spetta
         Il congedo maternità 2019 spetta alle seguenti categorie, come riporta il sito ufficiale dell’INPS:


  • lavoratrici dipendenti assicurate all’INPS anche per la maternità, comprese le lavoratrici assicurate ex IPSEMA;
  • apprendiste, operaie, impiegate, dirigenti con un rapporto di lavoro in corso all’inizio del congedo;
  • lavoratrici agricole a tempo indeterminato o determinato che, nell’anno di inizio del congedo, siano in possesso della qualità di bracciante con iscrizione negli elenchi nominativi annuali per almeno 51 giornate di lavoro agricolo;
  • lavoratrici addette ai servizi domestici e familiari (Colf e badanti);
  • Lavoratrici a domicilio;
  • lavoratrici iscritte alla Gestione Separata INPS e non pensionate;
  • lavoratrici dipendenti da amministrazioni pubbliche;
  • lavoratrici LSU o APU;
  • disoccupate o sospese.

Congedo maternità INPS: le novità del 2019
         La durata del periodo di astensione obbligatoria da parte delle neomamme per usufruire del congedo di maternità è di 5 mesi, questo viene diviso in due parti:


  • 2 mesi vengono concessi prima della data presunta del parto, se c’è interdizione disposta dalla AS per gravidanza a rischio o mansioni incompatibili con la gravidanza;
  • 3 mesi di congedo maternità, dopo il parto. In caso di parto avvenuto dopo la data presunta i giorni compresi tra la data presunta ed effettiva vengono aggiunti al periodo di congedo, se il parto è anticipato rispetto alla data presunta i giorni non goduti vengono sommati ai tre mesi anche se si supera il periodo di 5 mesi.

         Nel caso della approvazione della legge di bilancio 2019 e congedo maternità può essere concesso direttamente dopo il parto quindi la donna lavoratrice può restare al lavoro fino al nono mese di gravidanza

Congedo di maternità INPS 2019: quanto spetta
Картинки по запросу Congedo di maternità 2019         Per il congedo di maternità 2019 per le neo mamme lavoratrici dipendenti spetta un’identità pari al 80% della retribuzione media globale giornaliera, calcolate nell’ultimo mese di lavoro precedente all’inizio del congedo. Alle neomamme iscritte alla gestione separata, qualora il reddito derivi dallo svolgimento di attività di libero professionale o di collaborazione coordinata e continuativa parasubordinata l’indennità di congedo è pari al 80% di 1/365 del reddito.

Congedo di maternità INPS: chi paga?
Il congedo di maternità può essere erogato:


  • direttamente dal datore di lavoro in busta paga se si è scelto il pagamento con il congedo del conguaglio CA2G:
  • dall’INPS tramite: bonifico postale o accredito su conto corrente bancario o postale, ciò in caso di lavoratrici stagionali agricole, dello spettacolo saltuarie o a termine, colf e badanti, disoccupate o lavoratrice assicurate ex Ipsema iscritte alla gestione separata.

Congedo di maternità INPS: quando fare domanda
         Il congedo maternità va presentato tramite domanda nei due mesi prima della data prevista per il parto e non oltre un anno, per non perdere il diritto. Molto importante e trasmettere per via telematica all’INPS, tramite il medico SSN o convenzionato, il certificato medico di gravidanza, prima del periodo di fruizione del congedo di maternità, Dopo la neo mamma lavoratrice dovrà comunicare obbligatoriamente, entro 30 giorni dal parto, la data della nascita del figlio e le relative generalità.

Congedo maternità INPS: come fare domanda
         Congedo di maternità bisogna presentare la domanda all’INPS attraverso i seguenti canali:


  • il servizio dedicato online del sito dell’INPS;
  • numero verde INPS;
  • tramite intermediari come CAF e patronato.
Fonte https://www.notizieora.it/affari/congedo-di-maternita-2019-astensione-fino-al-nono-mese-di-gravidanza-ecco-tutte-le-novita/

Capodanno da futura mamma

        Niente party scatenati e niente fiumi di champagne, ma è possibile festeggiare l’ultimo dell’anno alla grande anche da incinta. Ecco qualche idea per un capodanno in gravidanza da ricordare:


    Capodanno da futura mamma
  • Tanto per cominciare, non è detto che il pancione debba essere un deterrente per indossare un abito elegante o sexy. Evitiamo dunque di presentarci in tuta di ciniglia al cenone di San Silvestro e cogliamo l’occasione per prenderci cura del nostro aspetto, osando un look ricercato e adatto all’occasione. Tubino nero stretch o abitino stile impero glitterato a seconda dei gusti e, se proprio non riusciamo a staccarci dal tutone, almeno che sia rosso!
  • Anche se quest’anno l’alcol è bandito dalla nostra tavola, non si deve rinunciare al piacere del brindisi, basta sostituire i classici cocktail con le versioni analcoliche, magari a base di frutta, altrettanto deliziosi, ma non nocivi per il nostro bebè in arrivo.
  • Se la data del parto è vicina, conviene non festeggiare in luoghi troppo affollati e caotici, ma scegliere una serata casalinga: cenetta a lume di candela o tombolata tra amici? A voi la scelta! L’importante è ricordarsi il bacio sotto il vischio allo scoccare della mezzanotte!
  • Per evitare di stancarsi troppo, meglio evitare gli inviti in casa propria, si può scegliere fra un ristorante dove farsi coccolare dall’antipasto al dolce o un cenone a casa di amici, dove al momento giusto ci si può congedare senza problemi. Ma anche una buona pizza nel cartone da dividere sul divano con il futuro papà, godendosi gli ultimi attimi di libertà prima dell’arrivo del bebè è un’opzione da non sottovalutare!
  • Se uscite, portatevi dietro la patente perché a fine serata potreste essere l’unica rimasta sobria e vi toccherà fare da autista…
  • Una passeggiata dopo cena per ammirare i fuochi di mezzanotte, se ve la sentite, non può far male e -a seconda di dove vi trovate- potrebbe essere molto romantica.
  • Se gli occhi vi si chiudono, è perfettamente inutile trattenere a forza lo sbadiglio per far passare la mezzanotte, concedetevi il lusso di andare a letto quando vi pare (anche perché di notti insonni ve ne aspettano parecchie).
Fonte https://www.dolceattesa.com/gravidanza/capodanno-da-futura-mamma_benessere/

Gravidanza, come superare il cenone di Capodanno

Картинки по запросу Gravidanza, come superare il cenone di Capodanno        Il vecchio consiglio popolare sulla necessità di “mangiare per due” è da archiviare. In gravidanza non è possibile seguire un’alimentazione squilibrata ed eccessiva.
A ricordarlo ancora una volta sono i nutrizionisti dell’Ivi, l’Istituto valenciano di infertilità. Paloma Ramos, che fa parte del team dell’Ivi, suggerisce un approccio “light” al temibile cenone di Capodanno. Oltre alla morigeratezza, le donne incinte dovrebbero prestare attenzione ai cibi crudi, evitando molluschi, crostacei, foie gras e sushi, oltre ai soliti affettati. Secondo alcuni studi, il prosciutto stagionato da più di 20 mesi sarebbe immune dalla toxoplasmosi, ma è meglio comunque soprassedere. Da evitare anche i formaggi non pastorizzati perché potrebbero essere infettati da listeria.
       “È possibile mangiare carne, pesce e uova, sempre che questi alimenti siano ben cotti. Sono eccellenti per lo sviluppo dell'embrione", aggiunge Daniela Galliano, responsabile del Centro Ivi di Roma.
       Consigliato invece il consumo di legumi, e quindi di lenticchie, soprattutto per le donne vegetariane, alle prese con una carenza di ferro dovuta alla mancanza di carne. Per un migliore assorbimento del nutriente è consigliabile evitare i latticini un’ora prima e un’ora dopo, e accompagnarne invece l’assunzione con prodotti ricchi di vitamina C come gli agrumi.

Fonte http://www.italiasalute.it/2376/pag2/Gravidanza-come-superare-cenone-di-Capodanno.html

Come celebrare il veglione di Capodanno in gravidanza

        Ci sono tantissimi modi per una donna incinta per godersi questa notte, anche se la data del parto è vicina. Se la tua gravidanza è a rischio, illustra i tuoi piani al ginecolgo e assicurati che non ci siano problemi. Ecco qualche consiglio:


  1. Organizza una serata ludica con i tuoi amici, magari un torneo per rendere il tutto un po' più competitivo. Gioca ad alcuni classici come Cluedo, Pictionary, Risiko o altri giochi preferiti dal tuo gruppo di amici. Sarebbe carino organizzare anche dei premi. Al posto di una grande cena, preparate una grande varietà di stuzzichini sfiziosi.
  2. festeggiare capodanno in gravidanza
  3. Trascorri una tranquilla serata con i tuoi cari. Fai una cena a lume di candela e guarda il conto alla rovescia in tv. Oppure prendi qualcosa da asporto e guarda un film mentre ti rilassi sul divano. Se ci sono dei bambini opta per una tombolata in famiglia.
  4. Prepara una cena alla buona per i vostri amici e familiari. Includi alimenti tradizionali come lenticchie, zampone, chicchi di melograno, uva... Se ci sono dei bambini ecco qualche ricetta per i più piccini.
  5. Informati sui festeggiamenti in piazza della tua città. Alcune città offrono concerti e fuochi d'artificio. Se il dottore è d'accordo e non sei troppo avanti con la gravidanza valuta anche l'opzione di andare fuori città. Viaggiare in gravidanza non è proibito. San Gregorio Armeno e i mercatini di Natale sono una buona opzione.
  6. Fai qualcosa che non ti sarà possibile per un po' dopo la nascita del bambino, come una cenetta romantica o un piccolo viaggio con il tuo partner. Approfittate del tempo che avete per stare soli prima che il bambino arrivi.
  7. Vai a cena fuori con amici e parenti. I ristoranti di solito sono aperti fino a tardi la notte di Capodanno e potrai evitare di stancarti troppo nel preparare il cenone. Se non sei troppo avanti con la tua gravidanza potresti canditarti come guidatrice per gli amici che hanno bevuto.
  8. festeggiare capodanno in gravidanzaGli ingredienti per un piacevole veglione di Capodanno sono cibo, divertimento e amici. Ma non è necessario andare a grandi feste o brindare con lo champagne. Né devi per forza stare sveglia per la mezzanotte se non ce la fai, ma se ci riesci non dimenticare di abbracciare la persona che ami e dargli un grande bacio.


Buon divertimento e Buon Capodanno future mamme!

Fonte https://www.lagravidanza.net/come-celebrare-il-veglione-di-capodanno-in-gravidanza.html

domenica 30 dicembre 2018

Ciste ovarica e gravidanza: concepimento, rischi e parto

Cisti ovariche, concepimento e infertilità
        Alcune cisti ovariche possono influenzare direttamente la fertilità. Stiamo parlando degli endometriomi e dalle cisti derivanti dalla cosiddetta sindrome dell’ovaio policistico.
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        Gli endometriomi sono provocati da endometriosi, una condizione in cui il tessuto dell’endometrio si sviluppa fuori dal suo contesto fisiologico (la parete interna dell’utero). Come la stessa endometriosi, anche le cisti ovariche correlate possono provocare infertilità o comunque difficoltà nel concepimento.

        In caso di ovaio policistico invece si è in presenza di un quadro complesso di mestruazioni irregolari e alti livelli di alcuni specifici ormoni: condizioni che possono compromettere la funzionalità riproduttiva. Endometriosi e sindrome dell’ovaio policistico rappresentano non a caso le più frequenti cause di infertilità femminile.

Cisti ovariche, gravidanza e rischi di complicanze
        Le cisti funzionali, i cistoadenomi e le cisti dermoidi non influiscono invece sulla possibilità di una gravidanza a meno che non diventino molto grandi.

        Le cisti ovariche funzionali vengono curate, laddove la sintomatologia lo renda necessario, con la pillola anticoncezionale e questa ha come evidente “effetto collaterale” l’impossibilità di una gravidanza. Va detto però che rimanere in stato interessante può essere d’ausilio, proprio perché non essendoci più l’ovulazione almeno le cisti funzionali tendono a regredire o comunque a non formarsene di nuove, ma stiamo parlando, sottolineiamo, solo delle funzionali.

        Ma ci sono rischi per il proseguo della gestazione se invece si rimane incinte in presenza di cisti ovariche? Uno studio pubblicato su PubMed ha evidenziato i seguenti dati: cisti ovariche sviluppatesi o individuate nel primo trimestre di gravidanza, sono solitamente funzionali e prive di complicanze di alcun tipo. Anche quasi tutte le cisti con diametro inferiore ai 5 cm e persistenti nei mesi successivi non solo non si sono dimostrate pericolose, ma hanno anche teso a regredire.

        Le stesse conclusioni di assenza di rischio si sono dimostrate per le cisti dermoidi inferiori a 6 cm di diametro in assenza di cellule maligne, anche se in tal senso non ci sono abbastanza studi scientifici ed occorrono approfondimenti. Come pure non esistono studi prospettici per la valutazione del rischio di cancro o complicazioni in caso di cisti dermoidi superiori ai 6 cm. Per tali motivi si può procedere senza intervenire e sostanzialmente solo tenendo sotto controllo la situazione.
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Cisti ovarica in gravidanza: parto naturale o cesareo?
        Secondo lo stesso studio scientifico non sono evidenti neppure conseguenze ostetriche, ovvero il parto naturale è garantito nella maggior parte dei casi. Il cesareo serve solo se la cisti ovarica è voluminosa e situata nella pelvi in un punto tale da ostruire il passaggio del bambino. In tali casi la ciste ovarica andrà rimossa in sede di cesareo nell’immediato della nascita del bambino.

Cisti ovariche: quando operare in gravidanza?
        Dopo la 16esima settimana l’incidenza delle cisti funzionali è molto bassa (0,5-3%) ed equivalente alle rare cisti dermoidi. La frequenza tra queste di un tumore ovarico oscilla tra un caso ogni 15.000 ed uno ogni 32.000 gravidanze. Laddove si sospetti un tumore l’intervento chirurgico può essere necessario. Alcune linee guida suggeriscono la laparoscopia fino al 4° mese e poi la laparotomia, ma solo in caso di neoplasia.

Fonte https://www.medicinalive.com/le-eta-della-salute/la-salute-delle-donne/ciste-ovarica-gravidanza-concepimento-rischi-parto/

Fecondazione assistita: 3 volte su 4 il figlio arriva prima di cinque anni

          Ma uno studio del genere richiede sistemi di monitoraggio della popolazione che pochi paesi al mondo possono garantire meglio della Danimarca. È qui infatti che sono stati raccolte le informazioni su  20 mila donne che hanno intrapreso un percorso di cura dell’infertilità tra il 2007 e il 2010: il 57 per cento delle danesi è diventata mamma grazie all’intervento medico, ma una percentuale significativa (14%) ha concepito un figlio senza alcun aiuto esterno. Più della metà delle donne (57%) è riuscita a portare a termine la gravidanza entro due anni dall’inizio della terapia. Non sono statistiche fini a se stesse, ma una base solida su cui fondare i pronostici dei medici: «Ora siamo in grado - dice Sara Malchau del Copenhagen University Hospital di Hvidovre in Danimarca - di poter fornire alle coppie previsioni affidabili e comprensibili a lungo termine diversificate anche in base all’età». In un paio d’anni il 57 per cento di tutte le donne è riuscita ad avere bambino. Con alcune differenze a seconda del tipo di trattamento: la fecondazione in vitro ha permesso al 46 per cento delle donne di diventare mamma in due anni, mentre l’inseminazione intrauterina ha ottenuto lo stesso risultato nel  36 per cento dei casi. Le probabilità di avere un figlio aumentano con il passare del tempo: dopo tre anni salgano al 65 per cento e dopo cinque arrivano al 71 per cento. Molte donne cambiano terapia durante il percorso: chi non ha avuto risultati con l’inseminazione intrauterina dopo due anni passa alla fecondazione in vitro. «Sì perché la tecnica di fecondazione intrauterina - spiega Malchau -  è più “a misura dei genitori” e meno costosa rispetto alle altre tecniche di riproduzione assistita,  ma non è così efficace: solo il 34 per cento delle coppie che iniziano con la intrauterina concepiscono grazie a quel trattamento».

          Può succedere anche (16,6%) che le donne in terapia con la intrauterina si ritrovino in cinta dopo cinque anni per cause naturali e non mediche. E se sono giovani sotto i 35 anni le probabilità che la natura torni a fare il suo corso aumentano fino al 18 per cento.

          Non è stata infatti una sorpresa per nessuno dei ricercatori danesi constatare che l’età è un fattore determinante per il successo delle terapie: dopo cinque anni il tasso delle nascite era dell’80 per cento tra le donne con meno di 35 anni, del 60, 5 per cento tra quelle di età compresa tra i 35 e i 40 e del 26 per cento tra le ultra quarantenni.

          Lo studio danese fornisce un valido aiuto ai medici di tutto il mondo chiamati a rispondere alle principali domande degli aspiranti genitori: «quante possibilità ci sono di avere un bambino e quanto tempo ci vorrà prima che accada?».

Fonte http://www.healthdesk.it/medicina/fecondazione-assistita-3-volte-4-figlio-arriva-prima-cinque-anni

Come vestire un neonato: comfort e sicurezza

Come vestire un neonato: comfort e sicurezza        Un bambino sempre troppo vestito (da inutili tute, doppi strati, sciarpe, cappellini, guanti, ecc.) non potrà imparare a usare i meccanismi di termoregolazione di cui la natura lo ha dotato e sarà facile preda dei germi ambientali. I microrganismi, infatti, per entrare nel nostro corpo e infettarlo, approfittano anche della poca abilità sviluppata dall’organismo ad affrontare le variazioni termiche.

        Il caldo eccessivo degli ambienti crea poi un ulteriore problema alle sue difese: l’aria secca prosciuga le mucose che rivestono le prime vie respiratorie, ed è proprio su queste mucose che sono localizzate le nostre prime barriere contro i germi, gli anticorpi di superficie. Il danneggiamento delle mucose e il loro seccarsi porta inevitabilmente alla distruzione di queste difese.

Sicurezza è un ambiente non troppo caldo
        Vestiario equilibrato e temperature adeguate sono anche requisiti di sicurezza: è stato evidenziato che nel primo anno di vita un bambino troppo vestito e tenuto in ambienti molto caldi rischia maggiormente di incorrere nella SIDS (la morte improvvisa del lattante). Gli ambienti, in periodo invernale, non dovrebbero avere temperature superiori ai 17°-18°C, conservando nell’aria un’umidità di almeno il 50-60%.

        Quindi, per mantenere la salubrità degli ambienti durante l’inverno e necessario attenersi a poche regole:


  • il riscaldamento deve rimanere acceso solo poche ore al giorno
  • le finestre vanno regolarmente spalancate ogni giorno, sia per l’indispensabile ricambio dell’aria degli ambienti, sia per far penetrare la luce solare (la cui positiva azione battericida viene ostacolata dai vetri).

        Non guasterebbe ritrovare anche un po’ di equilibrio comunicativo: troppo spesso si parla di “caldo torrido” e “freddo polare” (ormai la stampa sembra non poter più vivere senza ricorrere a questi inutili, dannosi, eccessi verbali) quando in realtà nei nostri climi questi eventi sono assolutamente rari e comunque sempre di breve durata. Questo eviterebbe la corsa ad alzare i riscaldamenti o a forzare i condizionatori senza motivo col risultato di sprecare soldi e perdere salute.

Картинки по запросу Come vestire un neonatoMiti duri a morire
        Le correnti d’aria non rappresentano alcun rischio per un organismo abituato a termoregolare: i genitori non dovrebbero dunque aver paura delle correnti d’aria ma piuttosto del surriscaldamento a cui spesso sottopongono il bambino.
        Meglio eliminare dal guardaroba del bambino le magliette di lana. Quando fa freddo la lana è certamente utile, ma solo se indossata come capo esterno, come maglione a esempio. Sotto, a contatto con la pelle, la maglietta dovrà essere di cotone: questo consentirà una maggior agilità quando occorrerà alleggerire prontamente il vestiario (vedi ad esempio quando si entra in ambienti troppo caldi come può essere un grande magazzino surriscaldato).

        Con le tecniche di riscaldamento delle case che abbiamo oggi si è persa la positiva funzione di coibente (isolante) che ha avuto per secoli la lana quando le case erano fredde ed estremamente disomogenee nella temperatura ambientale (gran caldo al volto e al torace, davanti a caminetti e stufe a legna, e freddo alla schiena). Oggi se la indossiamo come primo strato, a diretto contatto con la pelle, rischiamo di averne solo gli svantaggi irritativi.

No al body
        Infine una raccomandazione: non usate il body! Questa tuta (maglietta+mutande) è un capo di abbigliamento decisamente poco sano: impedendo ogni passaggio d’aria verso il corpo sottostante, ostacola la già difficoltosa ossigenazione della cute oppressa dalla plastica del pannolino (con tutti i rischi di danneggiamento della pelle e di infezioni che ne conseguono). L’unica porta dalla quale possa passare aria verso i genitali è lo spazio pancia-pannolino: durante la respirazione i movimenti della pancia del bambino creano una sorta di pompa per cui quando espira, l’aria presente dentro al pannolino (ormai surriscaldata e impoverita di ossigeno) viene spinta fuori mentre, a ogni inspirazione, entra aria fresca. Il body, aderendo al corpo e seguendone i movimenti respiratori, impedisce questo rinnovarsi dell’aria.

        Inoltre, il body impedisce anche un corretto e sano apprendimento dell’autogestione delle variazioni termiche: in altre parole tira su bambini che, non sapendo cosa significhi avere la pancia o la schiena scoperta, non sapranno mai affrontare questi piccoli disagi termici, finendo per essere meno abili nel difendersi. Pance e schiene scoperte possono essere fonte di disagio, ma non certo di malattie. Un neonato cui si scopre la pancia forse si lamenterà e richiederà l’intervento dell’adulto, ma col tempo farà da sé, imparando a ricoprirsi (o a scoprirsi se avrà caldo!) e questo lo renderà più abile, più autonomo e più sano.

        Infine, il body è un capo di abbigliamento che limita anche significativamente le capacità esplorative e di conoscenza del proprio corpo oltre che l’autonomia nelle funzioni igieniche (soprattutto quando usati nei più grandi, costretti a ricorrere sempre all’adulto per spogliarsi).

Fonte https://www.uppa.it/nascere/neonato/come-vestire-un-neonato/

FUMO IN GRAVIDANZA, SEGNI NEL SANGUE DEL BIMBO PER ANNI

            Ora lo studio condotto dai ricercatori della Johns Hopkins Bloomberg School of Public Health di Baltimora, USA, e pubblicato sulla rivista scientifica “Environmental Research” ha portato alla luce un risultato davvero inquietante: un prelievo di sangue su un bambino di cinque anni può portare a scoprire se la madre ha fumato durante la gravidanza.

fumo gravida            La nicotina e le altre sostanze contenute nelle sigarette producono delle modificazioni molecolari che sono desumibili dall’analisi del sangue del bambino per moltissimo tempo subito dopo il parto. Come ha sostenuto la leader della ricerca made in Usa, Margaret Daniele Fallin, con un po’ di sangue la ricerca può darsi delle risposte che fino a qualche anno fa sembravano impossibili.
            È già noto che il nostro corpo assorbe spesso determinate sostanze e le ritiene, per esempio, all’interno delle ossa (si pensi al piombo) ma i ricercatori sono rimasti molto stupiti di come addirittura il corpo di un feto possa assorbire e mantenere in circolo nel proprio corpo per anni queste sostanze.

            Per giungere a questi risultati, il Dottor Fallin ed i suoi colleghi hanno studiato delle particolari molecole corporee, completando così uno studio di due anni prima nel quale dei ricercatori avevano scoperto la correlazione fra la quantità di un determinato marchio epigenetico nel corpo del bambino e la probabilità che la madre avesse fumato durante la gravidanza.
            I ricercatori statunitensi hanno utilizzato, per svolgere lo studio, i campioni di sangue di 531 bambini in età prescolare provenienti da diversi paesi degli Stati Uniti d’America, e tutti accomunati dal fatto di avere madri che avevano fumato durante la gravidanza.

            A distanza di cinque anni, il sangue dei bambini conteneva ancora la memoria del fatto che la madre avesse fumato, la cosiddetta Metilazione, ovvero un fattore epigenetico consistente nell’aggiunta di un gruppo metile ad un gene.
                Lo studio in questione potrebbe avere una portata immensa per determinare tutte quelle cause di condizioni patologiche che il nostro corpo “memorizza” per anni.
            I ricercatori statunitensi mirano soprattutto a scoprire, andando avanti nella ricerca, se questa firma molecolare sia in qualche modo correlabile con altre condizioni patologiche sviluppate in età adulta.

Fonte
Smoking during pregnancy leaves a genetic mark imprinted in your baby’s blood ‘that’s still detectable 5 years later – and could be linked to autism

ETÀ NASCITA ULTIMO FIGLIO È INDICE LONGEVITÀ

fitoestrogeni         Uno studio condotto dalla Boston University School of Medicine sembra proprio rilevare un legame diretto tra l’insorgere della menopausa e l’aspettative di vita nella donna.
         La ricerca, infatti, svela come la capacità di concepire un figlio in età avanzata sia il rilevante indizio di una giovinezza più prolungata e di una vita più lunga.

          La ricerca – riportata dalla rivista scientifica americana Menopause (The Journal of the North American Menopause Society) – prende in esame la storia di oltre 3000 madri dalla longevità superiore alla media femminile. Confrontando la casistica presa in esame con quella di un gruppo di controllo, caratterizzato invece da mortalità precoce, lo studio rivela un evidente nesso tra la durata della vita e l’età del concepimento dell’ultimo figlio.

         Le donne che dimostrano la capacità di avere figli dai 33 anni in poi, avrebbero il doppio delle probabilità di raggiungere l’età di 95 anni.
         Come spiega il Dott. Thomas Perls, principale responsabile della ricerca e professore di medicina all’Università di Boston, l’età di concepimento e la longevità non sarebbero in diretto rapporto di causa-effetto, ma avere l’ultimo figlio in età avanzata rappresenterebbe un evidente marker di longevità in una donna.

         Al lento invecchiamento dell’apparato riproduttivo, insomma, corrisponderebbe un altrettanto lento invecchiamento del resto del corpo.
         Il risultato dello studio confermerebbe, inoltre, le scoperte di ricerche precedenti che esploravano le cause e gli indicatori di eccezionale longevità.
         Anche l’analisi dei dati pregressi, infatti, sottolinea come le donne capaci di portare a termine una gravidanza dopo il compimento del quarantesimo anno abbiano anche quattro volte più probabilità di superare il centesimo anno di età rispetto alle donne che abbiano avuto l’ultimo figlio in età meno avanzata.
         Ulteriori considerazioni a riguardo dei dati raccolti, tuttavia, devono completare i risultati tratti dalla ricerca.

         L’analisi statistica ha preso in considerazione, accanto all’età di concepimento dell’ultimo figlio, anche altri fattori di incidenza come le abitudini alimentari e di vita della madre, il livello di istruzione e l’utilizzo di sostanze nocive come alcol e tabacco.
         Al di là del legame con la longevità della donna, inoltre, la gravidanza in età avanzata ha anche uno stretto legame con le probabilità che il figlio nasca affetto da malformazioni o malattie congenite.
Allo scopo di approfondire le implicazioni di questo complesso legame tra età dell’ultimo parto e durata della vita sono già previste ulteriori ricerche che prendano in considerazione un più ampio quadro di fattori.

Fonti :
– Extended maternal age at birth of last child and women’s longevity in the Long Life Family Study
Sun, Fangui PhD; Sebastiani, Paola PhD; Schupf, Nicole PhD; Bae, Harold PhD; Andersen, Stacy L. BS; McIntosh, Avery BS; Abel, Haley BS; Elo, Irma T. PhD; Perls, Thomas T. MD, MPH
– Reproduction later in life is a marker for longevity in women

sabato 29 dicembre 2018

Tumori e gravidanza, ci sono correlazioni?/ Nuovi studi e informazioni dalla fertilità ai farmaci

        Purtroppo ci sono ancora molte correlazioni tra i tumori e la gravidanza, questo è stato l’argomento centrale all’interno della sessione dell’Aiom (Associazione italiana di oncologia medica) dove si è parlato di prospettive ed eventuali rischi. Una donna su mille/duemila gravidanze si trova a dover ricevere una diagnosi oncologica. Dall’altra parte invece c’è chi ha dovuto curare un cancro e proprio per questo ha subito gli effetti collaterali dell’infertilità. Il Direttore dell’Unità di Fertilità e procreazione in oncologia dello Ieo di Milano, Fedro Alessandro Peccatori, ha spiegato, come pubblicato da La Repubblica, che: “Nelle donne che hanno avuto una pregressa neoplasia la gravidanza successiva non è associata a un aumento del tasso di malformazione del feto. Però se la gravidanza si verifica prima di un anno dalla fine dei trattamenti c’è il rischio di avere dei neonati più piccoli per l’età gestazionale e un’incidenza più alta di parti prematuri“.

Tumori e gravidanza, ci sono correlazioni? Avere un figlio dopo un cancro
        Tra le correlazioni tra tumori e gravidanza c’è anche la paura di una donna che ha avuto un cancro a mettere al mondo un bambino. Fedro Alessandro Peccatori sottolinea: “Non aumenta il rischio di recidive e non peggiora gli esiti oncologici, nonostante la gravidanza sia associata a livelli di estrogeni circolanti davvero molto elevati. Si tratta di un’evidenza decisamente importante nel campo dell’oncofertilità che non viene ancora del tutto metabolizzata dai medici“. Infatti circa un oncologo su tre sconsiglia, e sbaglia a farlo, la gravidanza alle donne che hanno avuto tumori ormono-responsivi come per esempio il cancro mammario. Fin dal 2014 uno studio internazionale ha fornito dati davvero precisi sulle probabilità di poter ottenere una gravidanza in tutte le donne con questo tipo di tumore. Ora la tecnologia porterà a capire invece l’impatto delle tecnice di fecondazione assistita sia per l’efficienza che per la prognosi oncologica.

Fonte https://www.ilsussidiario.net/news/donnaemamma/2018/11/29/tumori-e-gravidanza-ci-sono-correlazioni-nuovi-studi-e-informazioni-dalla-fertilita-ai-farmaci/1816177/

Dieta in gravidanza: mangiare pesce grasso migliorerebbe lo sviluppo celebrale del neonato

Картинки по запросу Dieta in gravidanza: mangiare pesce grasso migliorerebbe lo sviluppo cerebrale del neonato       Il principale autore dello studio, Kirsi Laitinen, dell’Università di Turku, afferma che la dieta di una madre durante la gravidanza e l’allattamento al seno è la via principale per l’assunzione di preziosi acidi grassi polinsaturi, che diventano disponibili per il feto e agiscono in particolare sul cervello durante quello che può essere considerato un periodo di massimo sviluppo cerebrale.

       Tali acidi grassi modellano le cellule nervose, importanti non solo per il cervello, ma anche per l’apparato visivo, in particolare per la retina. Sono anche importanti nel formare le sinapsi, vitali nel trasporto di messaggi tra i neuroni nel sistema nervoso.

       I ricercatori hanno analizzato le diete di 56 madri che hanno dovuto tenere un diario alimentare regolare, in cui annotavano ciò che mangiavano durante la gravidanza. Sono stati presi in considerazione altri fattori, tra cui il peso, il livello di zucchero nel sangue, la pressione sanguigna, eventuali abitudini o stili di vita.

I bambini sono stati seguiti fino al secondo anno di età e sono stati analizzati i loro apparati visivi.

       I risultati hanno mostrato che i bambini le cui madri mangiavano pesce tre o più volte a settimana durante l’ultimo trimestre della gravidanza avevano migliori risultati durante i test visivi, rispetto ai bambini le cui madri non mangiavano pesce oppure ne mangiavano solo due porzioni a settimana.

Litinen sostiene che:

       I risultati del nostro studio suggeriscono che il consumo regolare di pesce da parte delle madri durante la gravidanza risulta benefico per lo sviluppo del bambino non ancora nato. Questo può essere attribuibile agli acidi grassi polinsaturi all’interno del pesce, ma anche a altri nutrienti come la vitamina D ed E, anch’essi importanti per lo sviluppo.

Fonte : https://www.stateofmind.it/2018/10/dieta-gravidanza-neonato/

Donne in gravidanza, attente alla carenza di iodio

        Secondo il Global Iodine Nutrition Network, diversi Paesi del mondo presentano un livello di assunzione di iodio insufficiente, con conseguenze molto serie tanto per le giovani donne quanto per i bambini. Lo iodio, infatti, è un micronutriente indispensabile per garantire il buon funzionamento della tiroide e assicurare la crescita e lo sviluppo del feto.

Картинки по запросу Donne in gravidanza, attente alla carenza di iodio        Lo iodio necessario per una adeguata funzione tiroidea di un adulto, come spiega Stefano Mariotti, professore di Endocrinologia e direttore del Dipartimento di Scienze mediche all'Università di Cagliari, è di 150 mcg al giorno e si assume tutto con la dieta: crostacei e pesci e, in minor misura, latte latticini e uova. Per raggiungere 150 mcg di iodio al giorno è sufficiente bere una tazza di latte, utilizzare il sale fino iodato per condire gli alimenti e mangiare pesce marino 2-3 volte alla settimana. Un’importante eccezione, però, è rappresentata dalla donna in gravidanza e durante l’allattamento, quando il fabbisogno di iodio sale a circa 250 mcg al giorno. Senza l’uso del sale iodato per condire le pietanze, dunque, la dieta risulta spesso carente di questo elemento per motivi legati alla catena alimentare delle zone le cui acque contengono basse quantità di iodio.

        Da qui l'iniziativa promossa da Ibsa Farmaceutici di realizzare un opuscolo informativo pensato per le mamme in gravidanza e per le donne che stanno pensando a un progetto di maternità sulla Importanza dello iodio in gravidanza e nei bambini. È realizzato nelle sei lingue più parlate in Italia dalle comunità di migranti in maggior misura presenti sul nostro Paese: albanese, rumeno, inglese, francese, arabo e naturalmente in italiano; è ricolto principalmente alle giovani donne in età fertile e alle future mamme originarie di Paesi classificati come insufficienti dal punto di vista dell’assunzione di iodio che vivono in Italia.

Fonte http://www.healthdesk.it/prevenzione/donne-gravidanza-attente-carenza-iodio

Lotus birth: privo di fondamento e potenzialmente pericoloso

        La Lotus Birth è una procedura che prevede di non recidere il cordone ombelicale, lasciando il neonato collegato alla placenta per qualche giorno, fino al suo distacco spontaneo: nel frattempo la placenta viene lavata e conservata in un apposito sacchetto, a volte cosparsa di sale grosso per favorirne l’essiccamento e di qualche goccia di olio profumato per mascherarne il cattivo odore e trasportata sempre con il neonato. Il nome deriva da Clair Lotus Day, infermiera californiana, che riteneva di avere la particolare dote di vedere un’aura attorno alle persone. Essa affermava che l’aura di chi non aveva ancora subito il taglio del cordone fosse più vibrante e integra: al momento della nascita di suo figlio chiese di non recidere il cordone, inaugurando così questa pratica. Era il 1974.

Cosa dice la scienza sul Lotus Birth
Lotus birth: privo di fondamento e potenzialmente pericoloso       Dal momento in cui la placenta (l’organo dal quale il feto riceve ossigeno e nutrienti) si stacca dal punto di inserzione nell’utero, perde la sua funzione; nel momento del distacco (spesso anche prima) cessa la pulsatilità, cioè le contrazioni regolari che rendono possibile lo scorrere del sangue dal bambino verso la placenta e soprattutto dalla placenta verso il bambino. Sangue preziosissimo che deve essere garantito al neonato nei primi minuti dopo la nascita: tanti studi hanno infatti mostrato chiaramente i vantaggi che derivano dal non praticare il taglio precoce del cordone, come si fa ancora in alcuni punti nascita.

       Quando il cordone smette di pulsare però non c’è più movimento di sangue tra i due distretti, né quindi passaggio delle sostanze che il sangue stesso veicola: il cordone collassa, la sostanza gelatinosa al suo interno perde liquidi e si essicca fino a mummificare. La placenta rimane ancora ricca di sangue, ma è un sangue non utilizzabile: ecco perché non si ha alcun vantaggio dal Lotus Birth.

       La placenta che rimane attaccata è invece un possibile terreno di crescita di germi e può infettarsi, anche se non ci sono ancora studi scientifici che quantifichino questo rischio infettivo, sia perché il Lotus Birth è una pratica recente, sia per l’esiguo numero di casi in cui viene realizzato, ma soprattutto perché queste scelte alternative spesso rifuggono al confronto scientifico, preferendo affidarsi a emozioni, suggestioni e quindi, in un certo senso, ad atti di fede.

       Il Royal College of Obstetricians and Gynaecologists (l’ente britannico la cui autorevolezza in materia di ostetricia è riconosciuta in tutto il mondo) sottolinea la pericolosità di questa scelta, raccomandando un’attenta sorveglianza dei neonati sottoposti alla Lotus Birth, anche se i sostenitori di questa pratica affermano proprio il contrario: sarebbe il taglio del cordone a rappresentare un alto rischio infettivo. Ma, mentre si prendono sempre delle precauzioni per contenere il rischio infettivo nel taglio del cordone, nulla invece viene suggerito dai sostenitori del Lotus Birth per non incorrere nel rischio che la placenta si infetti.

Energia… e un po’ di magia
       «Il cordone ombelicale, dopo che ha smesso di pulsare, non agisce più da condotto se non per un trasferimento energetico»: così rispondono i sostenitori del Lotus Birth a queste obiezioni. Ma di quale energia si sta parlando? Come e, soprattutto, cosa passerebbe dalla placenta al bambino? Nessuna concretezza scientifica, ma solo affermazioni suadenti e mistiche. Al momento in cui è stato scritto questo articolo, il sito ufficiale del Lotus Birth elenca i seguenti vantaggi:


  • miglioramenti considerevoli in armonia fisica e stabilità metabolica
  • i bambini Lotus Birth non perdono, nelle prime ore dopo la nascita, le energie nel tentativo di stabilizzare il proprio sistema
  • bambini pienamente sbocciati, che non hanno subito violenza e stress
  • si potrebbe dire che la Lotus Birth dia ai bambini gli strumenti di una lunga vita.

       I sostenitori del Lotus Birth parlano di dolore del neonato nell’essere separato da una parte di sé: «i bambini che nascono con questa tecnica sono visibilmente sensibili al fatto che il cordone o la placenta vengano toccati: nel cordone dev’esserci quindi ancora una forma percettiva». Ma per le conoscenze di anatomia che abbiamo anche questo non ha senso: il cordone non è innervato, e quindi non esistono strutture che possano portare eventuali stimoli dolorosi al cervello del neonato.

Moda o pratica sensata?
       Anche dal punto di vista antropologico ed etologico mancano riferimenti a pratiche analoghe: in nessuna parte del mondo, in nessuna epoca storica e neppure nel mondo animale si trovano esempi che possano in qualche modo far pensare a qualcosa di simile alla Lotus Birth.

       Senza contare che si tratta di una pratica veramente scomoda che ostacola la relazione: già normalmente i neo-genitori sono impacciati nel maneggiare il bambino, timorosi anche solo ne prenderlo in braccio, nel terrore di fargli male. E quante volte ci troviamo a rassicurare, tranquillizzare, invitarli a prenderlo in braccio, per abbandonarsi a questo prezioso primo rapporto fisico: vogliamo complicargli ulteriormente la vita, mettendo in mezzo anche il cordone, la placenta e il sacchetto?

       Nella Lotus Birth vediamo solo un positivo significato di richiamo al dare tempo all’evento della nascita, al rifuggire dalla velocità operativa, al sapersi fermare. Ma questo si può e si deve fare rimanendo aderenti ai dettami scientifici, rifuggendo approcci emotivi e romantici.

Fonte https://www.uppa.it/nascere/gravidanza-e-parto/lotus-birth/

Giovani donne con epilessia, la maggior parte sono fertili e in grado di portare a termine una gravidanza

       «In passato vi era la convinzione e alcune evidenze che la fertilità fosse ridotta nelle donne con epilessia rispetto alla popolazione generale» ha premesso il primo autore dello studio, Andrew G. Herzog, docente di Neurologia e Direttore dell’Unità di Neuroendocrinologia presso il Beth Israel Deaconess Medical Center di Wellesley (Massachusetts).

Indagine basata su dati retrospettivi autoriportati
       I ricercatori hanno utilizzato dati retrospettivi tratti da un registro di controllo delle nascite riferite a pazienti con epilessia basato sul web. Ogni donna affetta dalla patologia poteva partecipare a un sondaggio online e ottenere materiale educativo su una contraccezione sicura ed efficace.

       Da questo registro, i ricercatori hanno ricavato dati sulla riproduzione di 978 donne di età compresa tra 18 e 47 anni con epilessia. Le informazioni includevano dati demografici, sul tipo di epilessia, sui farmaci antiepilettici (AED) utilizzati, sull’uso di contraccettivi e sullo stato riproduttivo.

Herzog e colleghi hanno analizzato tre esiti:

  • tasso di infertilità: la percentuale di donne che hanno avuto rapporti sessuali non protetti ma non hanno raggiunto la gravidanza dopo un anno;
  • tasso di fertilità alterata: la percentuale di donne che erano infertili o che non portavano una gravidanza a una nascita, esclusi i casi di aborto;
  • tasso di vivinatalità: la percentuale di gravidanze che hanno portato a una nascita di nati vivi, esclusi i casi di aborto.

       Un totale di 411 donne ha cercato di rimanere incinta. Di questo gruppo, 373 hanno avuto 724 gravidanze con 445 nati vivi. L’età media alla gravidanza era di 24,9 anni, ma le donne che sono rimaste incinte variavano per età da 14 a 44 anni.

       Circa il 72,6% delle donne ha avuto un nato vivo nelle prime due gravidanze. Delle 411 donne, 38 hanno hanno tentato senza successo di rimanere gravide al temine di un anno, con un tasso di infertilità del 9,2% (IC al 95% 6,7 – 12,4). Al contrario, il tasso di infertilità nella popolazione generale si attesta al 6,4%, come stimato dai Centers for Disease Control and Prevention (CDC).

       Circa il 20,7% delle donne aveva una fertilità alterata, che includeva i 38 soggetti risultati infertili e le 46 gravidanze che non avevano dato luogo al parto di un nato vivo.

Poco chiaro l’impatto degli AED
       I ricercatori hanno anche esaminato il potenziale impatto degli AED sulla fertilità. In particolare, hanno confrontato farmaci non AED a monoterapie e politerapie e farmaci non AED a specifiche classi di AED, inclusi induttori enzimatici, non induttori enzimatici, inibitori enzimatici e glucuronidati.

       Abbiamo scoperto che nelle donne trattate con qualsiasi AED, il tasso di infertilità era doppio rispetto a quelli che non assumevano alcun AED (10,3% vs 4,2%), nonostante le dimensioni del campione in questa analisi ad interim fossero troppo piccole per essere statisticamente significative, ha detto Herzog.

       Lo studio avrebbe bisogno di un numero doppio di partecipanti in ogni categoria AED per essere adeguatamente potenziato per trarre conclusioni significative sul potenziale impatto degli AED sulla fertilità, ha aggiunto.

       Anche il tasso di fecondità alterato era quasi due volte maggiore per le donne in terapia con qualsiasi AED rispetto a quelle che non assumevano un AED (22,2% vs 13,9%; rischio relativo [RR]: 1,79; IC al 95% 0,94 - 3,11; p = 0,08).

       I confronti di varie monoterapie individuali per la politerapia non sono risultati significativi. Inoltre, il tasso di vivinatalità era simile per le donne in trattamento con qualsiasi AED (73,9%) rispetto a quelle che non assumevano un AED (79,1%).

       Tuttavia, quando il team di Herzog ha esamina l'impatto di specifici farmaci sulla fertilità, l'analisi ha mostrato che le donne trattate con lamotrigina avevano un tasso di natalità molto più alto rispetto alle donne loro abbinate in terapia con valproato (89,1% vs 63,3%; RR, 1,41; IC 95%, 1,05-1,88 ; P =0,.02).

Limiti della ricerca e problematiche nella pratica clinica
       Una limitazione dello studio è che le informazioni sono state autoriportate. Inoltre, le donne che hanno completato le indagini del registro erano più giovani e più istruite rispetto alla popolazione generale mentre quelle appartenenti a minoranze erano sottorappresentate. Inoltre, non è stato valutato l’impatto dell’eventuale infertilità del partner.

       I medici hanno numerosi problemi da discutere con le loro pazienti con epilessia durante le visite ambulatoriali. Questi includono la gestione delle crisi, la sicurezza e i rischi dei singoli farmaci antiepilettici, così come la contraccezione, che «spesso non è adeguatamente trattata» ha concluso Herzog.

Fonte https://www.pharmastar.it/news/neuro/giovani-donne-con-epilessia-la-maggior-parte-sono-fertili-e-in-grado-di-portare-a-termine-una-gravidanza--28434

venerdì 28 dicembre 2018

Sei ancora fertile? Tutto dipende dall’età

fertilità femminile        I tempi sono cambiati, è un dato di fatto. Oggigiorno le donne hanno figli in età sempre più avanzata. I motivi di queste gravidanze tardive, come si legge su Metro.co.uk, sono tanti. Si spazia, ad esempio, dalla questione professionale a quella economica. Con l’avanzare dell’età però, sono in molte ad essere soggette alla pressione dell’orologio biologico. Secondo la British Fertility Society, la fertilità femminile subisce un crollo a partire dai 30 anni.

Fertilità femminile, occhio all’età
        Ogni donna, alla nascita, vanta la bellezza di oltre 2 milioni di ovuli  che, verso i quattordici anni (quando si raggiunge la pubertà e con l’arrivo delle mestruazioni), iniziano a maturare. A ogni ciclo però (fino alla menopausa), se non sono fecondati, vengono espulsi. E’ verso i 21 anni che le donne raggiungono il loro momento più fertile. Questa fase dura fino a 28 anni, quando la fertilità inizia a declinare e, a poco a poco, le possibilità di rimanere incinta diminuiscono. Raggiunti i 37 anni, gli ovuli rimasti sono circa 25.000.

Tra i 21 e i 28 anni la donna è più fertile
        A confermare la tesi è stato anche l’Institut Marquès secondo il quale, dopo i 42 anni, le possibilità biologiche di concepire diminuiscono drasticamente. Ciò ovviamente non significa che, superata questa età, sia impossibile avere un figlio. Le probabilità di successo, tuttavia, sono più basse.

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Gravidanza, mai avere fretta
        Qualora si decidesse di costruire una famiglia, non bisogna vivere quello che dovrebbe essere un bel momento con troppa pressione. L’ansia non è amica, anzi. Lo stesso vale per lo stress. Secondo il National Health Service (NHS), infatti, circa 1 coppia su 7 può avere difficoltà a concepire. E ciò indipendentemente dall’età.

        Se pensate di avere superato il “momento giusto”, niente panico. Basta rivolgersi al proprio medico di famiglia il quale sarà in grado di aiutarvi a individuare uno specialista pronto a fornire il giusto supporto. Così facendo sarà dunque possibile affrontare il tutto con la massima serenità.

Fonte https://www.stile.it/2018/12/03/sei-ancora-fertile-tutto-dipende-dalleta-id-202604/

Cibo e fertilità: cosa dovrebbero consumare le donne quando cercano di concepire?

        L'infertilità ha molte cause note (ad esempio, difetto ovulatorio, occlusione tubarica, conta spermatica bassa) e molti fattori riducono la probabilità di gravidanza (ad es. età avanzata, riserva ovarica insufficiente, endometriosi). Esistono fattori di rischio modificabili e non modificabili per l'infertilità o la ridotta fertilità. Sebbene alcuni fattori non possano essere modificati (ad esempio, età e riserva ovarica), altri, come il peso corporeo e le abitudini di vita, sono modificabili.

        I pazienti spesso chiedono di offrire loro una guida sulla dieta ideale per migliorare le loro possibilità di concepire e portare a termine una gravidanza. Una recente recensione di Chiu e colleghi riassume la letteratura epidemiologica disponibile sui benefici riproduttivi delle diete e degli integratori alimentari.

Nutrizione e fertilità: rassegna dei risultati
        Questo articolo esamina i potenziali benefici del consumo di alcuni micronutrienti, macronutrienti e schemi dietetici.

Acido folico
        L'acido folico è importante per la produzione di cellule germinali e la gravidanza. La dose giornaliera raccomandata per prevenire i difetti del tubo neurale è 400-800 μg. Le donne che assumono multivitaminici contenenti acido folico hanno meno probabilità di essere anovulatorie e il tempo per ottenere una gravidanza è ridotto. Coloro che consumano più di 800 μg di acido folico al giorno hanno maggiori probabilità di concepire con la riproduzione assistita (TRA) rispetto a quelli la cui assunzione giornaliera è inferiore a 400 μg.

Vitamina D
        La vitamina D può influire sulla fertilità attraverso i recettori presenti nelle ovaie e nell'endometrio. Un livello estremamente basso di vitamina D (<20 ng / mL) è associato ad un rischio più elevato di rischio di aborto spontaneo. Alcuni studi suggeriscono che le donne con livelli adeguati di vitamina D (> 30 ng / mL) hanno maggiori probabilità di concepire dopo l'ART rispetto a quelle i cui livelli di vitamina D sono insufficienti (20-30 ng / mL), o carenti (<20 ng / mL). Questi risultati, tuttavia, non sono conclusivi.

I carboidrati
        I carboidrati della dieta influenzano l'omeostasi del glucosio e la sensibilità all'insulina, e questi meccanismi possono influire sulla riproduzione. L'impatto è più pronunciato tra le donne con sindrome dell'ovaio policistico (PCOS). Nelle donne con PCOS, una riduzione del carico glicemico migliora la sensibilità all'insulina e la funzione ovulatoria. I cereali integrali hanno effetti antiossidanti e migliorano anche la sensibilità all'insulina, influenzando così positivamente la riproduzione.

Integratori Omega-3
        Gli acidi grassi polinsaturi Omega-3 riducono il rischio di endometriosi. L'aumento dei livelli di acidi grassi polinsaturi omega-3 è associato a una maggiore gravidanza clinica e tassi di natalità vivi.

Proteine ​​e prodotti lattiero-caseari
        Alcuni rapporti suggeriscono che l'assunzione di proteine ​​del latte riduce la riserva ovarica. Altre segnalazioni suggeriscono risultati di TRA migliorati con un maggiore apporto di latticini. Carne, pesce e prodotti lattiero-caseari, tuttavia, possono anche servire come veicoli per la contaminazione ambientale che possono influire negativamente sull'embrione. Il pesce, d'altra parte, ha dimostrato di esercitare effetti positivi sulla fertilità.

Approccio dietetico
        In generale, è favorita una dieta mediterranea (alta assunzione di frutta, verdura, pesce, pollo e olio d'oliva) tra le donne con diagnosi di infertilità.

Punto di vista
Картинки по запросу Cibo e fertilità
        Una dieta ben bilanciata, ricca di verdure e frutta, è preferibile per le donne sterili e dovrebbe fornire i micro e macronutrienti necessari. È comune che i pazienti assumano quotidianamente una grande varietà di integratori vitaminici, minerali e di micronutrienti. I supplementi non devono sostituire le fonti alimentari di vitamine e oligoelementi a causa delle differenze di biodisponibilità (naturale o sintetica) e l'imprecisione delle dichiarazioni dell'etichetta può comportare un apporto subottimale di importanti nutrienti. Inoltre, le vitamine e i micronutrienti presenti in natura sono assorbiti in modo più efficace.

        Per quanto riguarda la dieta generale, si consiglia alle donne di seguire un apporto calorico che non contribuisca ad essere in sovrappeso o obese. L'obesità è in aumento tra i più giovani, compresi i bambini. Le donne obese hanno una minore probabilità di concepire e hanno meno probabilità di avere una gravidanza non complicata. Il peso adeguato può essere mantenuto con una dieta appropriata e un regolare esercizio fisico.

        Infine, le donne devono astenersi da sostanze potenzialmente dannose per la gravidanza (ad es. fumo, alcol, droghe ricreative, assunzione elevata di caffeina).

        Sfortunatamente, sono disponibili pochissimi ampi studi per guidarci nelle nostre raccomandazioni ai pazienti. La maggior parte della letteratura disponibile si basa su dati retrospettivi. Pertanto, sono urgentemente necessari studi prospettici randomizzati per studiare l'associazione tra nutrizione e fertilità, nonché le influenze dietetiche sui risultati della gravidanza.

Fonte: Medscape

Dalle pazienti oncologiche una tecnica per salvare la maternità del futuro

        Ancora poco conosciuta in Italia, è una tecnica standard già utilizzata per preservare la fertilità nelle pazienti oncologiche, che oggi può permettere anche alla donna sana di conservare i propri ovociti in attesa che le condizioni sociali, economiche ed emotive (sicurezza economica, carriera, partner ideale per esempio) le consentano di progettare una gravidanza consapevole.

        Per confrontarsi sulle potenzialità di questa procedura si sono incontrati a Roma ginecologi, esperti di medicina della riproduzione e antropologi in un meeting dal titolo Social freezing in a freezing society.

        In Italia, una coppia su quattro ha problemi di infertilità e, secondo stime dell’Organizzazione mondiale della sanità, nel 2020, una coppia su tre, nel mondo, non sarà in grado di procreare. La principale (non unica, ovviamente) causa dell’infertilità di coppia è oggi l’età in cui la donna si sente pronta per la sua prima gravidanza. Età media che è passata dai 25 anni dei primi anni Novanta agli attuali 32 e che si allontana quindi sempre più dal picco biologico picco della fertilità, cioè tra i 25 e i 35 anni.

Картинки по запросу Dalle pazienti oncologiche una tecnica per salvare la maternità del futuro        »La fertilità delle donne – ricorda Maria Giuseppina Picconeri, ginecologa esperta di medicina della riproduzione, che ha organizzato l'incontro romano con il patrocinio della Facoltà di Medicina dell’Università “La Sapienza” della Capitale- è biologicamente determinata: nasciamo con un patrimonio ovocitario definito e destinato a esaurirsi progressivamente con l’aumentare dell’età biologica. La buona notizia è che i progressi raggiunti dalla tecnica della crioconservazione, alla base dell’egg freezing, ci permettono di affermare che superare l’asincronia tra il proprio orologio biologico e le personali condizioni sociali della donna, è oggi possibile. Meglio ancora, che è possibile passare dal concetto di preservazione della fertilità, alla prevenzione dell’infertilità».

        Per avvicinarsi a questa tecnica una donna dovrebbe rivolgersi a un centro di procreazione assistita per permettere agli esperti di valutare la sua situazione e la possibilità di procedere ai passaggi successivi. Le percentuali di riuscita sono determinate dal numero degli ovociti congelati (almeno 8-10) e restano legate all’età della donna al tempo del congelamento: il momento ideale resta quello del picco della fertilità, ovvero tra i 25 e i 35 anni. Il tasso di sopravvivenza degli ovociti, a scongelamento avvenuto, è migliorato notevolmente e si aggira oggi intorno al 95% per le donne under 35, mentre le possibilità di ottenere una gravidanza sono di circa il 50% (sempre nelle under 35). Quanto ai costi, in Italia si aggirano intorno ai 3.000-3.500 Euro (contro i 12-13 mila dollari negli Stati Uniti), ai quali bisogna aggiungere 300 euro per ogni anno di conservazione.

        In conclusione, non bisogna dimenticare che il prelievo degli ovociti «è un vero e proprio intervento chirurgico – avverte Picconeri - e come ogni intervento può comportare rischi che, a volte, possono determinare anche delle complicazioni importanti. Da qui l’importanza di affidarsi a centri specializzati e di comprovata serietà professionale».

Fonte http://www.healthdesk.it/medicina/pazienti-oncologiche-tecnica-salvare-maternit-futuro-1411277172

Allattamento prolungato: quello che c’è da sapere

Allattamento prolungato: quello che c’è da sapere       All’interno della rivista l’articolo fa riferimento, in toni marcatamente polemici, alle mamme americane seguaci di William Sears, stimato pediatra d’oltreoceano che da anni si occupa di allattamento. L’immagine riesce a suscitare perplessità sia in chi non ha mai preso in considerazione l’eventualità che un bambino di quell’età possa nutrirsi al seno, sia in chi, invece, ha vissuto questa esperienza visto che il titolo ha un tono decisamente provocatorio. Cosa vuol dire essere mamma “abbastanza”? La risposta può dipendere esclusivamente da come la madre ha deciso di alimentare il suo piccolo? Per quanto tempo va allattato al seno un bambino? Quali sono i benefici che si ottengono?

       Per tentare di rispondere a queste domande ricordiamo il consiglio dell’Organizzazione Mondiale della Sanità che suggerisce che i bambini vengano allattati esclusivamente al seno per i primi sei mesi e che poi l’allattamento materno prosegua, integrato con cibi solidi, almeno fino ai due anni, finché mamma e bambino lo desiderano. Dunque le risposte che cerchiamo risiedono proprio nella formula “finché mamma e bambino lo desiderano”: oggi solo una corretta informazione e un adeguato sostegno alle madri può permettere loro di fare scelte consapevoli, oltre ogni pregiudizio.

Un meccanismo perfetto
       Il latte materno e l’allattamento al seno costituiscono la norma biologica della nostra specie; raramente ci chiediamo perché abbiamo i polmoni per respirare, ma spesso ci chiediamo perché i bambini vengono allattati dalle loro madri. La natura ha creato un meraviglioso meccanismo grazie al quale tutti i mammiferi si nutrono, per un periodo della loro vita variabile a seconda della specie, con un alimento unico, completo, ecologico e formulato specificamente per le necessità di crescita del piccolo. Solo dopo e gradualmente tutti i piccoli mammiferi iniziano a nutrirsi di altri cibi e diventano autonomi, abbandonando il latte della mamma. Per la specie umana quando arriva questo momento? Per quanto tempo un bambino ha veramente bisogno del latte materno?

       L’antropologa americana Jean Liedloff partecipò a numerose spedizioni in Amazzonia osservando lo stile di vita e le abitudini di una popolazione di indios venezuelani, gli Yequana. Nel libro scritto dopo questa esperienza, Il concetto del continuum, la studiosa descrive una modalità di accudimento dei bambini che corrisponde alle loro istintive richieste: portando i piccoli addosso, lasciandoli liberi di sperimentare e praticando l’allattamento prolungato i piccoli indios crescevano sicuri e autonomi.

       Questa e altre osservazioni antropologiche hanno messo in evidenza come i bimbi messi nelle condizioni di avere a disposizione il seno quando lo desiderano (come si era soliti comportarsi anche in occidente fino a meno di un secolo fa) tendono ad abbandonare il seno spontaneamente intorno ai tre anni. Questa tappa evolutiva però, così come il parlare o il camminare, non è raggiunta nello stesso momento da tutti i bambini; il bimbo posto nella condizione di svezzarsi naturalmente dal seno può staccarsi prima o dopo, con una media intorno ai tre anni ma una variabilità molto ampia che può andare dall’anno ai quattro, cinque in rari casi. C’è chi ha correlato lo svezzamento naturale dal seno con la completa maturazione del sistema nervoso centrale, che avviene appunto intorno ai tre anni con il completamento delle guaine mieliniche (le “pellicole” che rivestono i nostri nervi).

       Con l’avvento dell’alimentazione industriale è completamente cambiato il nostro modo di valutare l’allattamento. Avendo a disposizione un degno sostituto, le mamme consigliate dagli operatori sanitari hanno iniziato a decidere se allattare al seno e fino a quando farlo e non sono più stati i bambini a smettere spontaneamente di succhiare dal seno quando fossero stati pronti. Quindi oggi troviamo le mamme divise in partiti (così come ci dimostra l’articolo del Time): pro o contro l’allattamento, insieme alle fazioni moderate del “si, ma non troppo” e alle frange estreme del “fino alla maggiore età”.

Quali sono i vantaggi dell’allattamento prolungato
Картинки по запросу Allattamento prolungato       Innanzitutto l’allattamento riduce il rischio di patologie nella mamma come l’osteoporosi, ma anche il tumore al seno e all’ovaio e il livello di questa protezione è proporzionale alla durata complessiva degli allattamenti di quella donna. Per quanto riguarda il bambino, è sempre stato noto come il latte materno protegga i fragili neonati da pericolose infezioni, ma oggi sappiamo anche che riduce il rischio di insorgenza di numerose patologie immunomediate come la celiachia, il diabete, la sclerosi multipla, le allergie (anche se questo punto è ancora dibattuto).

       In una cultura in cui l’accesso alle cure è garantito e facilitato, non sempre il rischio di malattia è però un buon argomento per convincere il partito degli scettici. Quante volte le mamme che allattano a lungo si sentono dire «il tuo latte è acqua», «così non si staccherà mai» oppure «allatti ancora?». In realtà l’apporto nutrizionale del latte materno anche nel bambino più grande continua ad essere importante, si stima che due o tre poppate dopo il primo anno di vita forniscano al bambino 1/3 delle calorie quotidiane.

       Oltre ai vantaggi dal punto di vista strettamente medico, non dobbiamo dimenticare quelli di tipo emotivo e relazionale: il bimbo che ha bisogno di succhiare e di star vicino alla mamma si staccherà quando sarà pronto a farlo, portando con sé un bagaglio di esperienza e sicurezza impagabile. Con questo non voglio affermare che tutte le mamme, nel nostro paese e nella nostra epoca, con le difficoltà legate al lavoro, alla delega dell’accudimento e ai messaggi contrastanti di media ed operatori, debbano allattare i bambini fino a tre anni: per noi pediatri è già un enorme successo quando un bambino viene allattato esclusivamente fino a sei mesi e poi continua ad assumere latte materno fino all’anno.

       È giusto che tutti i genitori abbiamo la possibilità di fare delle scelte consapevoli riguardo all’alimentazione dei loro piccoli e, una volta adeguatamente informati e supportati, intraprendano autonomamente il proprio cammino: ribadisco la raccomandazione dell’OMS che recita «finché mamma e bambino lo desiderano». Se l’equilibrio si spezza, se la madre veramente non lo desidera più, si cercano strategie per interrompere l’allattamento nel modo meno traumatico possibile.

I falsi miti
        Innanzitutto l’allattamento prolungato non danneggia il bambino, anzi, come abbiamo detto, apporta numerosi guadagni di salute sia per il piccolo sia per la mamma. Inoltre il bambino allattato a lungo non sarà un mammone per sempre anzi, quando sarà pronto a staccarsi, avrà un bagaglio importante di sicurezza e autonomia. Il latte materno non perde sostanza con il passare dei mesi e degli anni, ma continua ad essere un importante apporto di liquidi e nutrienti. Non esiste un’età precisa in cui i bambini devono abbandonare il seno, lo fanno quando sono pronti o quando la mamma deciderà che è il momento, e lo fanno tutti. L’allattamento prolungato non deve essere necessariamente un allattamento “selvaggio”, si può allattare discretamente anche un bambino grande.

Fonte https://www.uppa.it/nascere/allattamento/allattamento-prolungato/

La relazione tra una futura mamma e il suo bambino: l’attaccamento prenatale, tra valutazione e implicazioni

        Da un punto di vista psicologico, il periodo precedente alla nascita, ma anche i primi giorni successivi al parto, implicano regolazioni e modifiche nel comportamento dei nuovi genitori, addirittura un cambiamento nella propria identità, che può aiutare a conoscere il nuovo arrivato e a costruire una nuova relazione tra i membri della famiglia (Redshaw & Martin, 2013, Milgrom, 2009).

Attaccamento e periodo perinatale
Картинки по запросу Attaccamento prenatale: un costrutto con diverse dimensioni        Tuttavia, nel corso della storia della psicologia e della psichiatria è stata posta attenzione a ciò che succede a una nuova madre dopo il parto. Attenzione ben riposta a causa del rischio di incorrere in problemi psicologici, come depressione e psicosi post partum. Entrambe portano a delle conseguenze negative non solo nella cura del neonato, ma anche nella relazione tra la mamma e il bambino (Milgrom, 1999). Per esempio si è visto come la depressione postpartum sia associata a un maggiore stress genitoriale (Leigh, 2008). Inoltre entrambe le variabili possono essere influenzate da ciò che accade alla mente della futura madre durante la gravidanza, come una bassa autostima, uno stile cognitivo negativo, e ansia preparto (Leigh, 2008).

Quindi che cosa accade prima della nascita? Quando hanno inizio i primi cambiamenti nei pensieri della gestante? Quali sono le emozioni che può provare?

        Una linea di ricerca si è interessata a come le rappresentazioni di attaccamento durante la gravidanza possano influenzare l’ attaccamento al bambino dopo la nascita (Fonagy, 1991). Per esempio si è visto come la capacità di riflessione misurata attraverso la Adult Attachment Interview durante la gravidanza predica la capacità di attribuire stati mentali e emozioni al bambino una volta nato (Arnott, 2007). Ma lo stato mentale che ha l’adulto nei confronti delle proprie esperienze di attaccamento non è detto coincida con l’ attaccamento che ha avuto in passato (Main, 2008), anche se può predire lo stile di attaccamento futuro (Fonagy, 1991).

        Invece, la risposta alle domande può essere inferita iniziando a definire come la futura madre possa pensare al proprio bambino, cominciando a conoscerlo quando è ancora nel proprio grembo, quindi alcuni ricercatori si sono interessati a quale sia legame tra gestante e feto.

        Questo legame è stato nominato attaccamento prenatale (APN), o anche attaccamento tra madre e feto. Nello specifico viene definito come

        L’attuazione di comportamenti che rappresentino un’affiliazione e un’interazione con il proprio figlio non ancora nato (Cranley, 1981)

Oppure come

La relazione, personale e unica, che si sviluppa tra una madre e il suo feto (Muller, 1990).

Attaccamento prenatale
        Si tratta realmente di attaccamento? In realtà alcuni ricercatori si sono posti il problema. Infatti se pensiamo alla definizione classica di Bowlby (1988), il sistema di attaccamento si riferisce a come un bambino, o qualsiasi cucciolo, quando si trova in una situazione di potenziale pericolo, si attivi per avviare l’interazione con la propria madre, in modo tale da essere difeso e protetto. Quindi se pensiamo alla definizione data sopra, sembrerebbe che tra attaccamento “classico” e attaccamento prenatale non ci sia molto in comune. In realtà si tratta di due facce della stessa medaglia, due modelli operativi interni complementari: il sistema attaccamento elicita il sistema di cura, o caregiving (Walsh, 2010). Infatti il sistema di attaccamento implica la presenza di due attori, il bambino che lo attiva, e il caregiver che gli risponde con il sistema di cura (Readshaw & Martin, 2013, Walsh, 2010). Tuttavia, durante la gravidanza la relazione è unidirezionale, relazione che incarna le rappresentazioni cognitive e gli stati emotivi riguardo al bambino che arriverà (Readshaw & Martin, 2013). Si può chiamare relazione? In realtà implica anch’essa la partecipazione di due, e se pensiamo alle relazioni diadiche tra adulti, i due individui sono sia caregiver che careseeker (Walsh, 2010). Allora il nome relazione secondo questa prospettiva si allontana ancora di più dalla definizione originaria di attaccamento prenatale (APN), infatti solitamente una madre non cerca rassicurazioni dal proprio figlio. Alcuni hanno suggerito di utilizzare il termine legame, ma se utilizzato di fronte ai futuri genitori potrebbe creare ansie e aspettative nel momento in cui stanno iniziando a conoscere il proprio bambino sia durante la gravidanza che ai primi contatti faccia a faccia dopo il parto (Redshaw & Martin, 2013). Quindi il termine legame potrebbe portare a una forzatura controproducente nelle relazioni.

        Tuttavia, evidenze recenti mostrano come l’ attaccamento prenatale possa essere di fatto un sistema di caregiving invece che di attaccamento (Walsh, 2014).

        Fermo restando che l’ attaccamento prenatale non è l’attaccamento inteso da Bowlby, ma parte di quell’insieme di comportamenti che fanno si che il caregiver si prenda cura della prole, in letteratura per comodità (e abitudine) si continua a utilizzare il termine attaccamento per indicare l’insieme delle rappresentazioni, cognitive e emotive, verso il feto.

Attaccamento prenatale (APN): come si misura?
        Sono stati proposti vari strumenti, ma principalmente ne vengono utilizzati tre: Maternal Foetal Attachment Scale (MFAS; Cranley, 1981), Maternal Antenatal Attachment Scale (MAAS; Condon, 1993) e la Prenatal Attachment Interview (PAI; Muller, 1993), poichè sono i test con le mgliori proprietà psicometriche. (Van den Bergh & Simons, 2008).

        Queste scale presuppongono che la relazione con il feto si manifesti con: comportamenti materni salutari, come seguire una dieta ed evitare fumo e alcool; accarezzare la pancia, parlare al feto; acquistare il necessario per il bambino; parlare al partner del futuro; immaginare come sarà il bambino; avere pensieri di tenerezza e vicinanza emotiva (Van den Bergh & Simons 2008). Quindi si presuppone che la donna sia in grado riportare tutto ciò sotto forma di una scala Likert (Van den Bergh & Simons, 2008), mentre le scale sembra misurino aspetti differenti del costrutto, con il risultato di avere misure diverse su fattori simili (Walsh, 2010). Per esempio, la MFAS sembra misurare maggiormente la percezione della gravidanza e il ruolo materno (Van den Bergh & Simons, 2008). Invece la PAI e la MAAS sembrano più coerenti con la definizione di attaccamento prenatale (APN) e hanno migliori proprietà psicometriche (Van den Bergh & Simons, 2008), tuttavia producono delle misure che confrontate tra loro, sembrano complicare il modello. Infatti, se pensiamo alle validazioni italiane delle scale mostrano diversi fattori che possono entrare in gioco, coerentemente con i risultati ottenuti in altri campioni.

        Nella validazione italiana della PAI, è stato confermato come l’APN non sia un costrutto unitario, ma possa essere composto da 5 fattori misurati dalla scala: 1) fantasie (“sogno il mio bambino”), 2) interazione (“riesco a far muovere il mio bambino”), 3) affetto (“amo il mio bambino”), 4) differenziazione di sé dal feto (“immagino di chiamare il mio bambino per nome”), 5) condivisione con gli altri (“lascio mettere le mani sulla pancia per far sentire agli altri i movimenti del mio bambino”) (Della Vedova, 2008). Mentre in un’altra validazione italiana, l’ultimo fattore non è stato considerato, ma saturato nel fattore interazione, e ne è stato trovato un altro detto sensibilità al feto, che considera items come “credo che il mio bambino abbia già una personalità”, che nell’altro studio facevano parte dell’interazione (Barone, 2014).

        Invece attraverso la validazione italiana della MAAS è stata confermata la natura bidimensionale dell’attaccamento prenatale, una componente di intensità della preoccupazione e una di qualità del coinvolgimento, rispettivamente quanto tempo la madre passa a pensare al feto, e la qualità dell’affettività (quindi se positiva) nei confronti del feto (Busonera, 2016). Nonostante alcuni items originali fossero maggiormente legati alla prima dimensione piuttosto che alla seconda, quelli che si riferiscono all’immagine mentale che la madre si è formata del feto e che riguardano i temi di indipendenza e di differenziazione tra madre e nascituro (Busonera, 2016).

Attaccamento prenatale: un costrutto con diverse dimensioni
        Quindi l’APN si configura come una dimensione eterogenea, sensibile alle misure proposte. Un modo per chiarire quale ne sia la natura è lo studio di quali possano essere le variabili che la influenzano, e proporne un modello esplicativo.

        Una delle variabili maggiormente confermate riguarda il periodo di gestazione al momento della misurazione dell’ attaccamento prenatale. Per esempio, in due studi italiani sono stati confermati i risultati di lavori precedenti, ovvero che l’APN aumenta con i mesi di gestazione, in conseguenza al fatto che la madre possa vedere il feto durante le ecografie e inizi a sentirne i movimenti (Della vedova, 2008, Barone, 2014). Inoltre è stato dimostrato come la PAI misuri l’investimento emotivo verso il feto, piuttosto che una generale rappresentazione cognitiva di quest’ultimo, poiché i punteggi all’APN correlavano negativamente con il punteggi alla scala per l’alessitimia, in particolare con l’external oriented thinking (Della Vedova, 2008). Invece sintomi depressivi non influenzano globalmente l’ attaccamento prenatale, ma solo due componenti (misurate attraverso la PAI di Muller, 1993): fantasie e sensibilità, due componenti che non intendono necessariamente sentimenti positivi, come amore o tenerezza, ma riflettono solo l’intensità dell’attaccamento (Barone, 2014).

        Per di più l’APN è influenzato non solo da variabili che riguardano strettamente la madre, ma anche relazionali. Infatti vi sono dati che confermano come il rapporto con il partner possa mediare la relazione durante la gravidanza. Per esempio si è visto come le modifiche all’interno della coppia prima dell’arrivo del neonato, misurate attraverso la Dyadic Adjustment Scale, possano influenzare l’APN globale positivamente, e con maggior forza i fattori fantasie e differenziazione di sé dal feto (Barone, 2014). Sorprendentemente la durata della relazione amorosa, invece, correla negativamente con l’APN, portando gli autori a ipotizzare come le coppie che hanno passato più tempo insieme prima di avere un figlio possano essere diventate più resistenti a pensare di cambiare le proprie abitudini di coppia già dalla gravidanza (Della vedova, 2008, Barone, 2014).

        Inoltre queste influenze relazionali dipendono anche da come la madre possa vivere la relazione con il proprio partner. In uno studio di Walsh e collaboratori (2014) si è studiato come l’attaccamento romantico della madre possa influenzare l’ attaccamento prenatale. I ricercatori hanno misurato: se le donne potessero avere un attaccamento al partner più ansioso (con la paura dell’abbandono) oppure più evitante (con allontanamento dalle relazioni significative), misurato attraverso la Experiences in Close Relationships Scale Short-Form; e se rispondessero ai bisogni del proprio partner, quindi la misurazione del sistema di caregiving attraverso il Caregiving Questionnaire (Walsh, 2014). I risultati hanno mostrato come l’attenzione ai bisogni del partner sia un mediatore dell’ influenza negativa dell’ attaccamento romantico evitante sull’APN, mentre non esiste una relazione tra attaccamento prenatale e attaccamento romantico ansioso (Walsh, 2014).

        In un altro studio, invece, è stato ipotizzato che il supporto sociale dopo la nascita, quindi come la madre immagina che il partner si prenderà cura del bambino, possa influenzare positivamente l’APN, stress e tratti ansiosi (Hopkins, 2018). Queste variabili sono state misurate, rispettivamente, attraverso: il Postpartum Social Support Questionnaire, la MAAS, la Depression Anxiety Stress Scales, e il State Trait Anxiety Inventory (Hopkins, 2018). I risultati ottenuti hanno mostrato come il supporto del partner e l’ansia di tratto fossero in relazione con l’ attaccamento prenatale, ma non lo stress (Hopkins, 2018). In particolare la percezione che il partner si prenderà cura del bambino è legata a punteggi più alti alla MAAS, e potrebbe diminuire la relazione negativa tra ansia e APN (Hopkins, 2018). In accordo con i risultati di Walsh e collaboratori (2014), sembrerebbe che alti livelli di ansia possano distrarre la futura madre dal concentrarsi sul futuro figlio, e quindi sull’ attaccamento prenatale, ma un supporto sociale adeguato può essere un fattore protettivo (Hopkins, 2018).

        Nonostante l’APN non sia ancora ben definito, e influenzato da numerosi fattori, gli strumenti per misurarlo risultano validi nel loro utilizzo. Anche se misurano aspetti diversi del modello, sono stati utilizzati per studiare la correlazione tra attaccamento prenatale e variabili misurate dopo il parto, avvalorando l’utilità di inserire tali misure per la prevenzione di situazioni cliniche a rischio, come la depressione postpartum, e sociali, come lo stress genitoriale. Verranno proposti studi longitudinali che mettono in relazione l’APN con variabili misurate dopo il parto, mostrando come questo costrutto possa influenzare non solo la psiche materna ma anche lo sviluppo del bambino.

        In uno studio proposto da Alhusen e collaboratori (2013) si è visto come, in un campione di donne con svantaggio socioeconomico, quelle che riportavano un alto APN hanno espresso successivamente uno stile di attaccamento sicuro associato a uno sviluppo cognitivo normale nel figlio. (Alhusen, 2013). In questo studio l’attaccamento prenatale è stato misurato con la MFAS di Cranley (1991), ed è stato messo in relazione a variabili come: andamento del parto (peso alla nascita del bambino e età gestazionale), sintomi depressivi postpartum (Edinburgh Postnatal Depression Scale), stile di attaccamento (Attachment Style Questionnaire), sviluppo del neonato tra 1 e 6 mesi (Ages and Stages Questionnaire) (Alhusen, 2013). I risultati hanno mostrato come un basso APN fosse associato a incorrere maggiormente in uno stile di attaccamento ansioso e sintomi depressivi, e di conseguenza un ritardo nello sviluppo dei bambini (Alhusen, 2013). Nonostante gli autori abbiano testato un campione già a rischio, hanno dimostrato come l’APN possa essere un predittore di possibili esiti avversi sia per la madre che per il bambino.

        Diversamente altri ricercatori si sono occupati di come una madre interagisce attivamente con il prorio figlio.

        In uno studio di Maas e collaboratori (2015), le donne con punteggi più alti nell’attaccamento prenatale hanno mostrato una sensibilità materna più adeguata sia nelle cure primarie (misurata con l’osservazione del cambio di pannolini) e in situazioni di gioco libero con i propri neonati di 6 mesi. Invece, non sono state trovati significatività tra APN non nell’interazione faccia a faccia senza giochi, non tanto perché queste madri fossero inespressive o anaffettive, anzi riportarono di sentirsi “spiazzate” poiché non si trattava di un tipo di interazione abituale (Maas, 2015). Quindi questo tipo di compito non si è rivelato adeguato allo scopo di vedere se esiste una maggiore connessione emotiva tra madre e figlio correlata all’APN.

        Diversamente, potrebbe essere utile misurare quanto il genitore abbia la tendenza a vedere il proprio figlio come un individuo agente e dotato di stati mentali, questa tendenza è detta mind-mindedness (McMahon, 2016). Questa capacità genitoriale può essere inferita dal linguaggio che il genitore utilizza a proposito degli stati mentali del proprio neonato durante le interazioni, quindi se appropriato e se in sintonia (McMahon, 2016). Si possono inoltre utilizzare due misure: una di osservazione dell’interazione, e un’altra analizzando le parole che i genitori esprimono per descrivere il proprio bambino (McMahon, 2016). Si tratta di un tratto cognitivo-comportamentale stabile nel genitore, ed è un indice di sensibilità genitoriale, predetto dall’ attacamento prenatale (misurato attraverso il questionario di Cranley (1981)) (McMahon, 2016). Quindi la sincronia tra gli stati mentali dell’adulto e quelli del bambino, e la comprensione di questi ultimi da parte del genitore possono essere influenzati positivamente dagli stati mentali della madre durante la gravidanza (McMahon, 2016).

        Tuttavia, la relazione non è solo misurabile da come ci si prende cura del neonato, e della sensibilità della madre di interpretare correttamente lo stato emotivo del bambino, ma anche come il nuovo genitore si vede come tale.

        Infatti è stato mostrato come APN, congiuntamente alle modifiche rappresentazionali nella diade madre-bambino durante la gravidanza, possano influenzare positivamente lo stress genitoriale, che a sua volta è un fattore protettivo per la futura relazione madre-bambino (Mazzeschi, 2015). Lo stress genitoriale può essere visto come la difficoltà di adeguarsi al ruolo di genitore, riflettendo difficoltà del genitore nel vedersi come tale, del riconoscere consapevolmente il proprio bambino e la relazione che si sta instaurando (Mazzeschi, 2015). Lo studio rivelò come l’APN, misurato attraverso il MAAS (Condon, 1993), spiegasse la variabilità nello stress genitoriale, congiuntamente allo stile di attaccamento, dove punteggi più bassi alla MAAS correlavano con uno stile di attaccamento ansioso (Mazzeschi, 2015).

Attaccamento prenatale: le conoscenze ad oggi
Картинки по запросу Attaccamento prenatale: le conoscenze ad oggi        Riassumendo, l’attaccamento prenatale (APN) è un’insieme di pensieri che la futura madre ha nei confronti del proprio feto, che aumenta di intensità con l’andamento della gravidanza (Della Vedova, 2008, Barone, 2014). È la concettualizzazione dell’investimento emotivo verso il bambino, piuttosto che di una rappresentazione cognitiva (Della Vedova, 2008). Ciononostante, un basso tono dell’umore non influenza globalmente l’APN, ma solo quei fattori indipendenti da un’affettività positiva (Barone, 2014). Trattandosi di un sistema unidirezionale che si attiva per la cura del futuro bambino, sembra essere sistema di caregiving, piuttosto che di careseeking come quello di attaccamento (Walsh, 2010 e 2014). È influenzato positivamente da variabili relazionali, come l’investimento nel modificare le dinamiche della coppia di futuri genitori (Barone, 2008), come la madre pone attenzione ai bisogni del proprio partner (Walsh, 2014), e se quest’ultimo venga percepito come supportivo una volta nato il bambino (Hopkins, 2018).

        In passato la maggior parte degli studi si è focalizzata sulla relazione tra predittori in gravidanza della depressioni post natale (Leigh, 2008), oppure sulla relazione tra rappresentazioni dell’attaccamento durante la gravidanza e attaccamento (Fonagy, 1991) e mentalizzazzione (Arnott, 2007). Ma anche l’APN può essere un indice precoce per individuare campioni a rischio di depressione postpartum (Alhusen, 2013). Inoltre l’ attaccamento prenatale può essere un predittore del funzionamento della diade madre bambino. Infatti alti punteggi alle scale per l’APN possono predire sia come la madre si prenderà cura del neonato che interagirà nel gioco libero (Maas, 2015), che se comprenderà adeguatamente gli stati emotivi del proprio bambino (McMahon, 2016). In aggiunta l’APN è anche un fattore protettivo per lo stress genitoriale (Mazzeschi, 2015).

        Quindi l’APN è una dimensione importante da studiare, per la prevenzione di situazioni a rischio e per favorire il benessere psicologico della mamma, lo sviluppo del bambino e la relazione tra i due.

        Non vi sono ancora delle linee guida per migliorare l’APN, e alcuni autori hanno ipotizzato che intervenire direttamente su questo costrutto possa avere effetti negativi sull’APN stesso, creando aspettative e aumentando l’ansia dei genitori (Readshaw & Martin, 2013). Potrebbe essere utile agirvi indirettamente. Per esempio, utilizzando delle tecniche per aumentare la consapevolezza di ciò che accade al proprio corpo durante la gestazione (Lovato, 2015), oppure dei propri stati mentali, e quindi tollerarli maggiormente, attraverso letture di auto-aiuto (Milgrom, 2009).

        Nonostante questi accorgimenti rimane come l’APN possa essere una chiave di lettura nell’interpretazione e nell’analisi a ciò che accade nella mente durante la gravidanza, senza agirvi direttamente può essere un fattore protettivo per il futuro sviluppo della diade madre-bambino.

Fonte : https://www.stateofmind.it/2018/12/attaccamento-prenatale/