sabato 4 luglio 2020

Rischio suicidio in gravidanza e nel post partum. In Italia fenomeno raro ma comunque preoccupante

       Il suicidio in gravidanza e nel primo anno dopo il parto è un evento raro, tuttavia, in Italia riguarda 2,3 donne per 100.000 nati vivi; un tasso più elevato di quello relativo, ad esempio, all’emorragia ostetrica (1,92 donne per 100.000 nati vivi). Il periodo più a rischio è quello compreso tra l’ultimo trimestre di gravidanza e i primi mesi dopo il parto.

       Il suicidio è un fenomeno complesso e multifattoriale influenzato da fattori genetici, psicologici, sociali e culturali. Tra questi:
• gravidanza non desiderata o un precedente aborto, soprattutto tra le giovani e giovanissime, e il decesso di un figlio
• gravidanza in età molto giovane
• aver avuto complicazioni ostetriche e neonatali
• disturbo psichiatrico già presente o insorto dopo la gravidanza (in particolare disturbo depressivo, disturbo bipolare e psicosi puerperale) ma anche il consumo di alcol, tabacco e di sostanze stupefacenti
• avere attuato un precedente tentativo di suicidio
• aver avuto un suicidio in famiglia
• separazione della donna dal suo bambino/a
• mancanza di una rete sociale di supporto
• aver subito abusi nell’infanzia
• aver subito e/o subire violenza da parte del partner
• perdita del lavoro.

       Le donne che si tolgono la vita (o tentano di farlo) nel periodo della gravidanza, del post partum e del puerperio utilizzano più frequentemente metodi “violenti” più letali rispetto alla popolazione femminile generale, indice questo di un’elevata intenzionalità del gesto.
Numerosi studi condotti in alcuni Paesi meno industrializzati riportano un maggior rischio di suicidio nel periodo della gravidanza e del post partum tra le donne non sposate e con bassa scolarità. Questi risultati possono far ipotizzare, anche nei Paesi più industrializzati, un rischio maggiore tra le donne appartenenti ad alcuni gruppi etnici e ceti sociali più svantaggiati.

       Indagare il rischio di suicidio è fondamentale per poter intervenire in modo tempestivo sulla tutela della salute materno-infantile. Le aree da studiare sono principalmente quelle legate all’ideazione suicidaria:
• presenza di pensieri suicidi (quanto frequenti e persistenti?)
• pensieri di morte persistenti e sentimenti di disperazione
• livello di impulsività
• presenza di un “piano” (quanto realistico? il metodo indicato è letale? ci sono le condizioni perché possa realizzarsi?)
• accesso e/o disponibilità di sostanze e mezzi (sostanze chimiche o farmaci; armi da fuoco ecc.)
• presenza di un disturbo psichiatrico (tra cui disturbo depressivo e disturbo post traumatico da stress)
• familiarità per suicidio
• avere un parente/familiare che soffre di disturbo psichiatrico
• storia di abuso di sostanze
• disturbi del sonno
• lutto recente e eventi di vita avversi
• pensieri di fare del male al bambino
• isolamento sociale
• violenza domestica e precedenti abusi sessuali.

Il ruolo della violenza domestica
       La violenza domestica durante la gravidanza è un problema di salute pubblica rilevante, ancora troppo sottovalutato e occultato, che incide sulla salute fisica e psicologica della donna, del feto e del neonato.
       Difficilmente si pensa a un legame tra due termini - violenza e gravidanza - comunemente considerati molto distanti tra loro. È infatti diffuso lo stereotipo secondo cui la gravidanza ha una funzione protettiva rispetto alla violenza. Tuttavia i dati smentiscono tale realtà.
L’Organizzazione Mondiale della Sanità stima che nel mondo 1 donna su 4 sia stata vittima di una forma di violenza in gravidanza. Per quanto riguarda l’Italia, l’ISTAT evidenzia che circa il 10% delle donne ha subito violenze dal partner anche durante la gravidanza e, per il 70% di queste, l’intensità della violenza è aumentata (11%) o, comunque non è diminuita (58%). Il 6% delle donne riporta l’inizio della violenza proprio nel periodo della gravidanza.
       Si tratta di dati probabilmente sottostimati soprattutto a causa della ritrosia delle donne nel denunciare la violenza subita dal partner. Inoltre, diversi studi evidenziano come anche episodi di violenza e abuso sessuale subiti in passato, non sufficientemente e psicologicamente trattati, si riattualizzino in gravidanza o durante il parto.

Lo stato mentale della donna
       Nel valutare il rischio suicidario è importante considerare lo stato mentale della donna e i suoi sentimenti: disperazione, rabbia, senso di colpa, vergogna, agitazione e impulsività.
Si passa infatti da un basso livello di rischio, quando i pensieri di farsi del male o di suicidio sono transitori, a un rischio medio quando i pensieri di morte e intenzionalità non sono accompagnati da un piano, sino ad arrivare a un rischio elevato, caratterizzato dalla presenza di continui e specifici pensieri suicidari, intenzionalità, pianificazione e scelta del mezzo lesivo. Bisogna inoltre considerare che la presenza contemporanea di più fattori aumenta il livello complessivo di rischio.

       Dal punto di vista psicologico le donne a maggior rischio sono quelle con una ridotta capacità di problem solving e una ridotta capacità di adattamento, che mostrano un approccio passivo nell’affrontare i cambiamenti e che hanno una minore capacità di gestione dello stress.
       In un recente studio italiano è emerso che uno dei fattori più importanti nello sviluppo di sintomi di depressione perinatale è il non poter contare su amici e famiglia per un supporto psicologico. Al contrario, la presenza di una rete sociale di supporto risulta invece essere anche in questa fase particolare della vita un fattore protettivo.
       Poter contare sulla famiglia e sugli amici per un aiuto pratico o per un supporto psicologico, essere soddisfatti della propria relazione sentimentale, poter contare sul compagno quando ci si sente preoccupate o nervose e per un aiuto pratico sono tutti aspetti protettivi.

Fonte http://www.quotidianosanita.it/studi-e-analisi/articolo.php?articolo_id=86742

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