Le prime notizie italiane sugli effetti dell’infezione da Sars-Cov2 in gravidanza sono buone: anche nel nostro paese, come anticipato dai dati provenienti dalla Cina e dal Regno Unito, gli esiti materni e neonatali dell’infezione appaiono meno gravi rispetto ai temibili quadri clinici di altre malattie respiratorie virali come la Sars, la Mers e il virus H1N1. Lo dicono i risultati di uno studio messo in piedi a gran velocità – ma con l’altrettanto grande rigore che lo caratterizza – dal gruppo di ricerca di Serena Donati dell’Istituto Superiore di Sanità, presentati in un webinar il 2 luglio scorso (la registrazione sarà disponibile a breve sul sito di Epicentro).
Casi italiani, un conteggio preliminare
Donati è la responsabile scientifica del Sistema di sorveglianza ostetrica dell’ISS (in breve Itoss), che dal 2013 raccoglie dati completi e affidabili sui casi di mortalità materna in 13 regioni italiane. Più di recente, a questa sorveglianza si sono aggiunte quella sulla mortalità perinatale e sui cosiddetti near miss ostetrici, situazioni in cui la donna è sopravvissuta dopo aver rischiato di morire per complicazioni legate a gravidanza, parto o puerperio. Forti della rete di referenti regionali e locali costruita in questi anni per Itoss, Donati e collaboratori sono riusciti ad avviare con tempestività il nuovo progetto di ricerca su Covid-19 e gravidanza, coinvolgendo anche le regioni mancanti per avere una copertura nazionale completa.
Naturalmente, la prima cosa da fare di fronte all’emergenza coronavirus era “contare” le infezioni tra le donne in gravidanza. “Lo abbiamo fatto chiedendo ai presidi sanitari italiani di segnalarci, attraverso la rete, tutti i casi con diagnosi di infezione certa da Sars-Cov-2 in gravidanza, al parto o al puerperio che arrivavano all’attenzione dei servizi stessi per visite ambulatoriali o ricoveri” ha spiegato durante il webinar la statistica Alice Maraschini. I conteggi sono partiti in modo attivo il 25 marzo, ma con recupero dei dati anche per il mese precedente (dal 25 febbraio. Ricordiamo che il primo caso autoctono di Covid-19 è del 21 febbraio). Dal 25 febbraio al 25 giugno sono stati segnalati 510 casi, in maggioranza relativi di donne al parto (282), seguite da donne in gravidanza (98) e in puerperio (86).
Identikit delle donne più colpite
Ora tutti questi casi sono sotto la lente d’ingrandimento dei ricercatori ISS, con l’obiettivo di descrivere gli esiti materni e neonatali (in quanti casi è andato tutto bene? In quanti ci sono state complicazioni e di che tipo?) e di analizzare eventuali associazioni tra questi esiti con caratteristiche ostetriche e socio-demografiche delle mamme o con aspetti di gestione clinica e organizzativa dei punti nascita. E sono proprio i primi dati relativi a queste analisi quelli presentati durante il webinar: dati riferiti a 146 donne con diagnosi certa di Covid-19 che hanno partorito tra il 25 febbraio e il 22 aprile, nella maggioranza dei casi (86%) in regioni settentrionali e in particolare in Lombardia (57,5%).
“Abbiamo osservato un tasso di incidenza di 2,1 casi confermati di madri Covid positive ogni 1000 parti, ma come prevedibile questo tasso cambia molto da zona a zona del paese: dal 3,9 per 1000 del Nord allo 0,2 per 1000 del Sud, con la punta massima del 6,9 per 1000 in Lombardia” spiega Donati. Da notare che i casi sono probabilmente sottostimati perché si riferiscono a situazioni in cui non erano (o non erano ancora) condotti tamponi a tappeto delle donne in arrivo ai servizi ospedalieri.
Di questi 146 casi, 99 non hanno avuto polmonite, contro 47 che l’hanno avuta. Le donne con cittadinanza non italiana sono state colpite più spesso delle italiane da quadri gravi (il 48% contro il 28,6%), molto probabilmente per una maggiore difficoltà di accesso ai servizi sanitari (per mancanza di informazioni, ostacoli linguistici, emarginazione sociale, paura). “E abbiamo imparato quanto siano importanti cure tempestive per queste patologie” sottolinea Donati. Più colpite, sia rispetto all’infezione sia rispetto alla presenza di polmonite, anche le donne con altre malattie pregresse come obesità, malattie autoimmuni, diabete, ipertensione. Tutte condizioni che devono quindi essere considerate come un campanello d’allarme per il rischio di complicazioni in gravidanza in caso di infezione da Sars-Cov2.
Senza sintomi
Febbre, tosse e stanchezza sono stati i sintomi più comuni, ma poco più di una donna su quattro (il 28%) non aveva sintomi. Il 59% delle donne ha riferito di non aver avuto contatti a rischio nei 14 giorni precedenti la comparsa delle prime manifestazioni: un dato che ripropone con forza la questione dell’impatto delle infezioni asintomatiche e di conseguenza quella dello screening a tappeto per le donne in gravidanza che si ricoverano in ospedale. Ha senso o no, dal punto di vista di salute pubblica, fare il tampone a tutte? Una domanda sulla quale ricercatori e decisori dovranno sicuramente continuare a ragionare.
Le terapie
Nella metà circa dei casi esaminati, le donne Covid positive hanno ricevuto un trattamento farmacologico, per lo più a base di idrossiclorochina, antibiotici e antivirali, variamente combinati tra loro. Da notare che un’analisi analoga condotta nel Regno Unito tra il primo marzo e il 14 aprile ha evidenziato che oltre Manica non è mai stata usata l’idrossiclorochina e gli antivirali sono stati somministrati solo nel 2% delle pazienti. “I medici italiani sono stati più propensi di quelli inglesi a utilizzare farmaci per i quali si hanno comunque informazioni rassicuranti rispetto al profilo di sicurezza in gravidanza, ma resta il fatto che la questione dei farmaci in gravidanza è ancora decisamente scottante” commenta Donati. “Purtroppo le donne in gravidanza sono troppo spesso escluse dalle sperimentazioni cliniche di farmaci e vaccini e credo che anche in questo caso sia molto importante prevedere studi che le includano. La ricerca sui farmaci in gravidanza è una priorità di salute pubblica a livello internazionale riconosciuta anche dall’Agenzia europea dei farmaci”.
Gli esiti per mamme e bambini
Buone notizie sul fronte esiti, dicevamo. “Per le mamme, la gran parte dei quadri clinici è stata lieve o moderata. Solo in 7 casi ci sono state manifestazioni più serie, tra le quali insufficienza respiratoria e preeclampsia e non si è registrata alcuna morte materna. E anche per i neonati le cose sono andate meglio di come potevamo temere all’inizio, con 4 bambini che hanno mostrato condizioni più serie ma nessun caso di morte neonatale. Ci sono purtroppo stati due casi di morte in utero, ma non sappiamo se siano direttamente correlati all’infezione”. Insomma, Sars-Cov-2 si sta comportando in modo meno cruento dei suoi “cugini” responsabili di Sars e Mers o del virus influenzale H1N1.
La situazione probabilmente più “critica”, ma anche in questo caso in misura moderata, ha riguardato i parti pretermine, che sono stati più frequenti rispetto alla popolazione generale (19,2% rispetto al 7% circa). Interessante notare che molti di questi parti (64%) non sono stati spontanei ma iatrogeni, cioè indotti o programmati, a indicare probabilmente una componente di preoccupazione degli operatori che li ha portati ad anticipare il parto. Nella grande maggioranza dei casi si è comunque trattato di cosiddetti late-preterm, parti tra le 33 e le 36 settimane di gravidanza, per i quali sono minori i rischi di complicazioni neonatali.
Parto e assistenza perinatale
“E’ andata meglio di quanto non osassi sperare” chiarisce subito Donati illustrando i dati relativi al parto e all’assistenza perinatale. In effetti siamo un paese ad alto tasso di cesarei (media nazionale 33,7%) e – diciamoci la verità – le conquiste relative al rispetto della fisiologia della nascita sono state tardive e non sempre pienamente condivise e messe in pratica. Registriamo ancora grande variabilità per area geografica, tra regioni e tra punti nascita nella percentuale di cesarei e nella medicalizzazione dell’assistenza al percorso nascita. “Con questo quadro di partenza, poteva essere facile farsi prendere la mano in una situazione di emergenza in cui per di più le informazioni disponibili erano veramente scarse e spesso contraddittorie”. E invece i dati dicono che anche in questo caso le cose sono andate tutto sommato meglio del previsto.
La percentuale di tagli cesarei è stata in linea con la media nazionale (32,9% e addirittura 25,3% tra le pazienti che non hanno avuto polmonite) e considerato che parliamo nelle primissime fasi dell’epidemia anche per l’allattamento non è andata malissimo, con il 73,4% dei neonati del gruppo che hanno ricevuto latte materno (in alcuni casi spremuto). Circa il 43% delle donne ha potuto avere una persona vicina durante il parto e il 63,5% ha praticato il rooming in. Il contatto pelle a pelle dopo la nascita, considerato importante per l’avvio dell’allattamento al seno e per promuovere il bonding mamma-bambino, è stato tuttavia praticato solo nel 15% dei casi, nonostante l’Organizzazione Mondiale della Sanità, ma anche il Collegio dei ginecologi e ostetrici inglese abbiano molto insistito sulla sicurezza di questa pratica (e di altre a sostegno della fisiologia) e sull’opportunità di garantirle, se ovviamente la mamma era in grado di sostenerle.
“Certo – commenta Donati – non è tutto brillante, c’è ancora molto da fare, ma credo che si sia andati nella direzione giusta. Le informazioni erano scarse, la paura tanta, le complicazioni organizzative ancora di più, eppure i nostri medici sono stati in grado di non eludere la priorità del rispetto della fisiologia, e di adoperarsi per garantirla nella pratica assistenziale. Non optare per il cesareo di routine, far attaccare un bambino al seno di una mamma positiva, non separarlo alla nascita sono state azioni coraggiose in una situazione nella quale i dati disponibili erano scarsi e le difficoltà organizzative enormi. Per confronto, pensiamo che durante i primi due mesi della pandemia il Regno Unito ha registrato un 59% di tagli cesarei, nonostante la media nazionale sia inferiore a quella italiana”.
Fonte https://oggiscienza.it/2020/07/06/covid-19-gravidanza-primi-dati-su-come-sono-andate-le-cose-italia/
Casi italiani, un conteggio preliminare
Donati è la responsabile scientifica del Sistema di sorveglianza ostetrica dell’ISS (in breve Itoss), che dal 2013 raccoglie dati completi e affidabili sui casi di mortalità materna in 13 regioni italiane. Più di recente, a questa sorveglianza si sono aggiunte quella sulla mortalità perinatale e sui cosiddetti near miss ostetrici, situazioni in cui la donna è sopravvissuta dopo aver rischiato di morire per complicazioni legate a gravidanza, parto o puerperio. Forti della rete di referenti regionali e locali costruita in questi anni per Itoss, Donati e collaboratori sono riusciti ad avviare con tempestività il nuovo progetto di ricerca su Covid-19 e gravidanza, coinvolgendo anche le regioni mancanti per avere una copertura nazionale completa.
Naturalmente, la prima cosa da fare di fronte all’emergenza coronavirus era “contare” le infezioni tra le donne in gravidanza. “Lo abbiamo fatto chiedendo ai presidi sanitari italiani di segnalarci, attraverso la rete, tutti i casi con diagnosi di infezione certa da Sars-Cov-2 in gravidanza, al parto o al puerperio che arrivavano all’attenzione dei servizi stessi per visite ambulatoriali o ricoveri” ha spiegato durante il webinar la statistica Alice Maraschini. I conteggi sono partiti in modo attivo il 25 marzo, ma con recupero dei dati anche per il mese precedente (dal 25 febbraio. Ricordiamo che il primo caso autoctono di Covid-19 è del 21 febbraio). Dal 25 febbraio al 25 giugno sono stati segnalati 510 casi, in maggioranza relativi di donne al parto (282), seguite da donne in gravidanza (98) e in puerperio (86).
Identikit delle donne più colpite
Ora tutti questi casi sono sotto la lente d’ingrandimento dei ricercatori ISS, con l’obiettivo di descrivere gli esiti materni e neonatali (in quanti casi è andato tutto bene? In quanti ci sono state complicazioni e di che tipo?) e di analizzare eventuali associazioni tra questi esiti con caratteristiche ostetriche e socio-demografiche delle mamme o con aspetti di gestione clinica e organizzativa dei punti nascita. E sono proprio i primi dati relativi a queste analisi quelli presentati durante il webinar: dati riferiti a 146 donne con diagnosi certa di Covid-19 che hanno partorito tra il 25 febbraio e il 22 aprile, nella maggioranza dei casi (86%) in regioni settentrionali e in particolare in Lombardia (57,5%).
“Abbiamo osservato un tasso di incidenza di 2,1 casi confermati di madri Covid positive ogni 1000 parti, ma come prevedibile questo tasso cambia molto da zona a zona del paese: dal 3,9 per 1000 del Nord allo 0,2 per 1000 del Sud, con la punta massima del 6,9 per 1000 in Lombardia” spiega Donati. Da notare che i casi sono probabilmente sottostimati perché si riferiscono a situazioni in cui non erano (o non erano ancora) condotti tamponi a tappeto delle donne in arrivo ai servizi ospedalieri.
Di questi 146 casi, 99 non hanno avuto polmonite, contro 47 che l’hanno avuta. Le donne con cittadinanza non italiana sono state colpite più spesso delle italiane da quadri gravi (il 48% contro il 28,6%), molto probabilmente per una maggiore difficoltà di accesso ai servizi sanitari (per mancanza di informazioni, ostacoli linguistici, emarginazione sociale, paura). “E abbiamo imparato quanto siano importanti cure tempestive per queste patologie” sottolinea Donati. Più colpite, sia rispetto all’infezione sia rispetto alla presenza di polmonite, anche le donne con altre malattie pregresse come obesità, malattie autoimmuni, diabete, ipertensione. Tutte condizioni che devono quindi essere considerate come un campanello d’allarme per il rischio di complicazioni in gravidanza in caso di infezione da Sars-Cov2.
Senza sintomi
Febbre, tosse e stanchezza sono stati i sintomi più comuni, ma poco più di una donna su quattro (il 28%) non aveva sintomi. Il 59% delle donne ha riferito di non aver avuto contatti a rischio nei 14 giorni precedenti la comparsa delle prime manifestazioni: un dato che ripropone con forza la questione dell’impatto delle infezioni asintomatiche e di conseguenza quella dello screening a tappeto per le donne in gravidanza che si ricoverano in ospedale. Ha senso o no, dal punto di vista di salute pubblica, fare il tampone a tutte? Una domanda sulla quale ricercatori e decisori dovranno sicuramente continuare a ragionare.
Le terapie
Nella metà circa dei casi esaminati, le donne Covid positive hanno ricevuto un trattamento farmacologico, per lo più a base di idrossiclorochina, antibiotici e antivirali, variamente combinati tra loro. Da notare che un’analisi analoga condotta nel Regno Unito tra il primo marzo e il 14 aprile ha evidenziato che oltre Manica non è mai stata usata l’idrossiclorochina e gli antivirali sono stati somministrati solo nel 2% delle pazienti. “I medici italiani sono stati più propensi di quelli inglesi a utilizzare farmaci per i quali si hanno comunque informazioni rassicuranti rispetto al profilo di sicurezza in gravidanza, ma resta il fatto che la questione dei farmaci in gravidanza è ancora decisamente scottante” commenta Donati. “Purtroppo le donne in gravidanza sono troppo spesso escluse dalle sperimentazioni cliniche di farmaci e vaccini e credo che anche in questo caso sia molto importante prevedere studi che le includano. La ricerca sui farmaci in gravidanza è una priorità di salute pubblica a livello internazionale riconosciuta anche dall’Agenzia europea dei farmaci”.
Gli esiti per mamme e bambini
Buone notizie sul fronte esiti, dicevamo. “Per le mamme, la gran parte dei quadri clinici è stata lieve o moderata. Solo in 7 casi ci sono state manifestazioni più serie, tra le quali insufficienza respiratoria e preeclampsia e non si è registrata alcuna morte materna. E anche per i neonati le cose sono andate meglio di come potevamo temere all’inizio, con 4 bambini che hanno mostrato condizioni più serie ma nessun caso di morte neonatale. Ci sono purtroppo stati due casi di morte in utero, ma non sappiamo se siano direttamente correlati all’infezione”. Insomma, Sars-Cov-2 si sta comportando in modo meno cruento dei suoi “cugini” responsabili di Sars e Mers o del virus influenzale H1N1.
La situazione probabilmente più “critica”, ma anche in questo caso in misura moderata, ha riguardato i parti pretermine, che sono stati più frequenti rispetto alla popolazione generale (19,2% rispetto al 7% circa). Interessante notare che molti di questi parti (64%) non sono stati spontanei ma iatrogeni, cioè indotti o programmati, a indicare probabilmente una componente di preoccupazione degli operatori che li ha portati ad anticipare il parto. Nella grande maggioranza dei casi si è comunque trattato di cosiddetti late-preterm, parti tra le 33 e le 36 settimane di gravidanza, per i quali sono minori i rischi di complicazioni neonatali.
Parto e assistenza perinatale
“E’ andata meglio di quanto non osassi sperare” chiarisce subito Donati illustrando i dati relativi al parto e all’assistenza perinatale. In effetti siamo un paese ad alto tasso di cesarei (media nazionale 33,7%) e – diciamoci la verità – le conquiste relative al rispetto della fisiologia della nascita sono state tardive e non sempre pienamente condivise e messe in pratica. Registriamo ancora grande variabilità per area geografica, tra regioni e tra punti nascita nella percentuale di cesarei e nella medicalizzazione dell’assistenza al percorso nascita. “Con questo quadro di partenza, poteva essere facile farsi prendere la mano in una situazione di emergenza in cui per di più le informazioni disponibili erano veramente scarse e spesso contraddittorie”. E invece i dati dicono che anche in questo caso le cose sono andate tutto sommato meglio del previsto.
La percentuale di tagli cesarei è stata in linea con la media nazionale (32,9% e addirittura 25,3% tra le pazienti che non hanno avuto polmonite) e considerato che parliamo nelle primissime fasi dell’epidemia anche per l’allattamento non è andata malissimo, con il 73,4% dei neonati del gruppo che hanno ricevuto latte materno (in alcuni casi spremuto). Circa il 43% delle donne ha potuto avere una persona vicina durante il parto e il 63,5% ha praticato il rooming in. Il contatto pelle a pelle dopo la nascita, considerato importante per l’avvio dell’allattamento al seno e per promuovere il bonding mamma-bambino, è stato tuttavia praticato solo nel 15% dei casi, nonostante l’Organizzazione Mondiale della Sanità, ma anche il Collegio dei ginecologi e ostetrici inglese abbiano molto insistito sulla sicurezza di questa pratica (e di altre a sostegno della fisiologia) e sull’opportunità di garantirle, se ovviamente la mamma era in grado di sostenerle.
“Certo – commenta Donati – non è tutto brillante, c’è ancora molto da fare, ma credo che si sia andati nella direzione giusta. Le informazioni erano scarse, la paura tanta, le complicazioni organizzative ancora di più, eppure i nostri medici sono stati in grado di non eludere la priorità del rispetto della fisiologia, e di adoperarsi per garantirla nella pratica assistenziale. Non optare per il cesareo di routine, far attaccare un bambino al seno di una mamma positiva, non separarlo alla nascita sono state azioni coraggiose in una situazione nella quale i dati disponibili erano scarsi e le difficoltà organizzative enormi. Per confronto, pensiamo che durante i primi due mesi della pandemia il Regno Unito ha registrato un 59% di tagli cesarei, nonostante la media nazionale sia inferiore a quella italiana”.
Fonte https://oggiscienza.it/2020/07/06/covid-19-gravidanza-primi-dati-su-come-sono-andate-le-cose-italia/
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