I protocolli di sincronizzazione ormonale e l’uso di seme sessato sulle manze stanno mitigando non solo il senso di sconfitta ma anche il mancato profitto dell’allevamento. E’ però forte la sensazione che queste, specialmente la prima, non siano soluzioni definitive ma modi per tirare avanti in attesa di capire bene perché le bovine s’ingravidano con sempre maggiore difficoltà.
L’atteggiamento che spesso prevale quando non si è soddisfatti dell’infertilità è quello dello “scaricabarile”. Spesso i veterinari attribuiscono questa situazione ad una generica “colpa dell’alimentazione” e, più specificatamente, ad una mancanza d’energia o ad un eccesso proteico e l’alimentarista alla presenza di generiche malattie infettive. Ma questo atteggiamento di ricerca del colpevole e non della soluzione è forse la vera e unica causa dell’infertilità delle bovine da latte.
Per chi vuole affrontare “strutturalmente” quello che è il più grande problema che si deve risolvere quotidianamente, cioè la scarsa fertilità, è necessario un profondo reset metodologico che parte dall’abbandonare il termine “infertilità” per sostituirlo con “Sindrome della sub-fertilità” (SdSF), per ribadire che questa è la più tipica delle patologie plurifattoriali poichè dovuta ad una molteplicità di elementi che agiscono contemporaneamente e che in ogni allevamento possono avere pesi diversi. Questa patologia, come tutte le altre sindromi d’allevamento, deve essere affrontata con un atteggiamento analitico, un po’ come quando un bravo investigatore affronta un delitto, con la differenza che con la SdSF non c’è quasi mai un solo colpevole ma un concorso di colpa.
Il primo passo è guardare i dati. Una sessione di diagnosi di gravidanza negative non significa avere un problema. Magari il fato ha voluto che fossero tutti animali già problematici. Utilizzare i dati, specialmente di grandi allevamenti, non è oggettivamente facile. Un buon criterio per capire se c’è qualcosa di comune tra le cause della SdSF è utilizzare la regola del 15%. Se ad esempio più del 15% delle bovine presenta metrite puerperale alla indispensabile visita post-partum, significa che bisogna ricercare un fattore di rischio collettivo, come una scarsa igiene al parto, un’alimentazione errata in preparazione al parto, un eccessivo interventismo sul parto, etc. Se ad esempio più del 15% delle bovine ha una tardiva (oltre i 20 gg) o nulla ripresa dell’attività ovarica dopo il parto, probabilmente il bilancio energetico e proteico è più negativo del normale o c’è un problema durante l’asciutta. Importante è anche raggruppare i dati per primipare e pluripare e per mese dell’anno. Sappiamo bene che ci sono periodi dell’anno durante i quali la fertilità non va bene, come in estate ed inizio autunno, ed altri in cui tutto funziona a meraviglia, come in inverno ed in primavera. Grave e sbagliato è fare le stesse cose di quando tutto procedeva a gonfie vele anche nei momenti in cui tutto va male, come adottare la stessa dieta o utilizzare lo stesso veterinario. Questo almeno nelle stalle dove non si prendono seri provvedimenti per la gestione dei mesi estivi. Se l’incidenza delle malattie metaboliche, delle patologie ovariche e di quelle uterine è al di sotto del 15% ci si soffermerà a curare con grande attenzione le singole bovine senza pensare a fattori eziologici o di rischio collettivi. Non si verifica un piano alimentare se solo 8 bovine in un allevamento con 100 vacche in mungitura presentano cisti ovariche, mentre se sono più di 15 sicuramente sì, e con molta attenzione. Dopo avere migliorato le cose adottando il principio del 15%, si può tranquillamente far scendere questa soglia al 10%.
In Italia si spende, o perde, molto tempo a chiedersi se la fertilità migliora misurandone gli aspetti utilizzando il “Metodo Ferguson” o il sistema classico!
Tra i primi accertamenti da fare utilizzando i dati c’è il verificare quando, dopo il parto, le bovine vengono effettivamente inseminate (intervallo parto-prima inseminazione). Anticipare la prima fecondazione, o su calore naturale o indotto, prima dei 70 gg dà in genere poche gravidanze, aumenta il rischio d’infezioni uterine, fa consumare molte dosi di seme e, nel caso s’instaurasse una gravidanza, provocherebbe un drastico ”taglio” del picco di lattazione.
Se l’allevamento è dotato di un buon sistema di rilevazione dei calori, come ad esempio i sensori d’attività, se la stalla è costruita in modo che le bovine possano esibire un buon comportamento estrale e se la fecondazione viene effettuata al tempo giusto, la probabilità che avvenga una gravidanza è molto elevata. Queste sono le prime indagini da eseguire, senza mai dare per scontato che vengano effettuate correttamente, non solo per un’eventuale imperizia dell’allevatore ma anche per il fatto che le bovine sono cambiate. Non sono più quelle di una volta anche solo perché esibiscono il “prezioso” comportamento del “ferma alla monta” pochissime volte al giorno e d’estate spesso solo di notte. Negli allevamenti che possiedono un paddock esterno per le bovine in lattazione il comportamento estrale è sicuramente più facilitato. L’unico “addetto” in allevamento la cui azione prescinde da una corretta rilevazione del calore, da un pavimento scivoloso o un sovraffollamento che ostacola il comportamento estrale e il giusto tempo di fecondare è il toro. Quando ci sono dubbi su questi tre aspetti manageriali fondamentali della SdSF si può decidere per l’aiuto temporaneo di un toro da mettere insieme alle bovine, o in un recinto adiacente alle aree di riposo, oltre a fare accurate indagini in allevamento.
Ormai è più che accertato che una elevatissima percentuale di bovine fecondate con un seme di qualità e nel giusto tempo rimangono gravide ma l’embrione deve superare diverse tappe rischiose prima dell’attecchimento all’utero e fino al parto. Per ben comprendere questo meccanismo e studiare i gusti provvedimenti da adottare si deve conoscere cosa succede all’ovocita dopo che è stato fecondato. Nei primissimi giorni dopo il concepimento si stima che oltre l’85% degli ovociti fecondati si sviluppa verso la fase di morula (gg 6). A cavallo tra questa fase e la successiva (blastociste) l’embrione produce una molecola chiamata interferon-tau (INF-τ) la cui produzione aumenta con l’età e che è proporzionale alla taglia della blastociste. Il suo ruolo è quello di avvisare la madre dell’esistenza di una gravidanza in modo da bloccare la produzione di prostaglandine (PGF2α) da parte dell’utero, evitando la lisi del corpo luteo che produce il prezioso ormone che permette il proseguimento della gravidanza e che si chiama progesterone. Già una bassa produzione di INF-τ al 4° giorno e di progesterone al 6° giorno fa aumentare il rischio d’interruzione della gravidanza.
Per aumentare la probabilità di gravidanza ci sono importanti aspetti nutrizionali, o meglio metabolici, da considerare dal momento che condizionano la qualità dell’ovocita del follicolo dominante, ossia quello che verrà fecondato, e l’ambiente uterino, in particolare le sostanze nutritive in esso contenute che condizionano la crescita dell’embrione fino al suo attecchimento alla parete uterina che solitamente avviene al 35° giorno d’età.
Quando ci si dà l’obiettivo, condiviso con convinzione tra allevatore, nutrizionista e veterinario, di puntare ad avere follicoli dominanti di grandi dimensioni che contengano un ovocita di qualità, non ci si deve mai dimenticare che il tempo che trascorre tra lo stadio primordiale di un follicolo (infanzia) e la fase ovulatoria (maturità) è di circa 4 mesi e che stress metabolici e carenze di specifici nutrienti in questo periodo possono compromettere irreversibilmente la qualità degli ovociti e delle cellule follicolari che dopo l’ovulazione daranno luogo alla produzione del corpo luteo (dal quale viene secreto il progesterone). Il bilancio energetico e proteico negativo, tipico delle ultime due settimane di gravidanza e delle primissime settimane di lattazione, comporta spesso un aumento nel sangue di BHB (corpo chetonico), NEFA (acidi grassi non esterificati provenienti dal tessuto adiposo ma anche dall’alimentazione) e urea derivante dal catabolismo degli acidi grassi che sono in grado di alterare la qualità sia del follicolo che dell’ovocita in esso contenuto.
Stesso si può dire per la qualità del “latte uterino” che può essere alterata dalla presenza d’infezioni, da carenze nutritive generiche o di specifici amminoacidi, come la metionina, o da un pH alterato per un’eccessiva concentrazione di azoto non proteico.
Pertanto, quando la fertilità non va e si vuole veramente risolvere il problema senza cercare scorciatoie, si deve assumere un atteggiamento analitico condiviso da chi ha la responsabilità della fertilità delle bovine in allevamento, ossia l’allevatore, dal veterinario e dal nutrizionista. Nessuno di loro è “innocente” a prescindere e l’atteggiamento “abbiamo fatto sempre così” è forse la vera causa della SdSF. Avere come priorità la migliore qualità possibile dell’ovocita, del follicolo dominante, del corpo luteo e dell’ambiente uterino e un impeccabile metodo di rilevazione del calore e del giusto momento di fecondare sono i pre-requisiti per ottenere la migliore fertilità possibile in allevamento.
Fonte http://www.ruminantia.it/quando-la-fertilita-non-va/
L’atteggiamento che spesso prevale quando non si è soddisfatti dell’infertilità è quello dello “scaricabarile”. Spesso i veterinari attribuiscono questa situazione ad una generica “colpa dell’alimentazione” e, più specificatamente, ad una mancanza d’energia o ad un eccesso proteico e l’alimentarista alla presenza di generiche malattie infettive. Ma questo atteggiamento di ricerca del colpevole e non della soluzione è forse la vera e unica causa dell’infertilità delle bovine da latte.
Per chi vuole affrontare “strutturalmente” quello che è il più grande problema che si deve risolvere quotidianamente, cioè la scarsa fertilità, è necessario un profondo reset metodologico che parte dall’abbandonare il termine “infertilità” per sostituirlo con “Sindrome della sub-fertilità” (SdSF), per ribadire che questa è la più tipica delle patologie plurifattoriali poichè dovuta ad una molteplicità di elementi che agiscono contemporaneamente e che in ogni allevamento possono avere pesi diversi. Questa patologia, come tutte le altre sindromi d’allevamento, deve essere affrontata con un atteggiamento analitico, un po’ come quando un bravo investigatore affronta un delitto, con la differenza che con la SdSF non c’è quasi mai un solo colpevole ma un concorso di colpa.
Il primo passo è guardare i dati. Una sessione di diagnosi di gravidanza negative non significa avere un problema. Magari il fato ha voluto che fossero tutti animali già problematici. Utilizzare i dati, specialmente di grandi allevamenti, non è oggettivamente facile. Un buon criterio per capire se c’è qualcosa di comune tra le cause della SdSF è utilizzare la regola del 15%. Se ad esempio più del 15% delle bovine presenta metrite puerperale alla indispensabile visita post-partum, significa che bisogna ricercare un fattore di rischio collettivo, come una scarsa igiene al parto, un’alimentazione errata in preparazione al parto, un eccessivo interventismo sul parto, etc. Se ad esempio più del 15% delle bovine ha una tardiva (oltre i 20 gg) o nulla ripresa dell’attività ovarica dopo il parto, probabilmente il bilancio energetico e proteico è più negativo del normale o c’è un problema durante l’asciutta. Importante è anche raggruppare i dati per primipare e pluripare e per mese dell’anno. Sappiamo bene che ci sono periodi dell’anno durante i quali la fertilità non va bene, come in estate ed inizio autunno, ed altri in cui tutto funziona a meraviglia, come in inverno ed in primavera. Grave e sbagliato è fare le stesse cose di quando tutto procedeva a gonfie vele anche nei momenti in cui tutto va male, come adottare la stessa dieta o utilizzare lo stesso veterinario. Questo almeno nelle stalle dove non si prendono seri provvedimenti per la gestione dei mesi estivi. Se l’incidenza delle malattie metaboliche, delle patologie ovariche e di quelle uterine è al di sotto del 15% ci si soffermerà a curare con grande attenzione le singole bovine senza pensare a fattori eziologici o di rischio collettivi. Non si verifica un piano alimentare se solo 8 bovine in un allevamento con 100 vacche in mungitura presentano cisti ovariche, mentre se sono più di 15 sicuramente sì, e con molta attenzione. Dopo avere migliorato le cose adottando il principio del 15%, si può tranquillamente far scendere questa soglia al 10%.
In Italia si spende, o perde, molto tempo a chiedersi se la fertilità migliora misurandone gli aspetti utilizzando il “Metodo Ferguson” o il sistema classico!
Tra i primi accertamenti da fare utilizzando i dati c’è il verificare quando, dopo il parto, le bovine vengono effettivamente inseminate (intervallo parto-prima inseminazione). Anticipare la prima fecondazione, o su calore naturale o indotto, prima dei 70 gg dà in genere poche gravidanze, aumenta il rischio d’infezioni uterine, fa consumare molte dosi di seme e, nel caso s’instaurasse una gravidanza, provocherebbe un drastico ”taglio” del picco di lattazione.
Se l’allevamento è dotato di un buon sistema di rilevazione dei calori, come ad esempio i sensori d’attività, se la stalla è costruita in modo che le bovine possano esibire un buon comportamento estrale e se la fecondazione viene effettuata al tempo giusto, la probabilità che avvenga una gravidanza è molto elevata. Queste sono le prime indagini da eseguire, senza mai dare per scontato che vengano effettuate correttamente, non solo per un’eventuale imperizia dell’allevatore ma anche per il fatto che le bovine sono cambiate. Non sono più quelle di una volta anche solo perché esibiscono il “prezioso” comportamento del “ferma alla monta” pochissime volte al giorno e d’estate spesso solo di notte. Negli allevamenti che possiedono un paddock esterno per le bovine in lattazione il comportamento estrale è sicuramente più facilitato. L’unico “addetto” in allevamento la cui azione prescinde da una corretta rilevazione del calore, da un pavimento scivoloso o un sovraffollamento che ostacola il comportamento estrale e il giusto tempo di fecondare è il toro. Quando ci sono dubbi su questi tre aspetti manageriali fondamentali della SdSF si può decidere per l’aiuto temporaneo di un toro da mettere insieme alle bovine, o in un recinto adiacente alle aree di riposo, oltre a fare accurate indagini in allevamento.
Ormai è più che accertato che una elevatissima percentuale di bovine fecondate con un seme di qualità e nel giusto tempo rimangono gravide ma l’embrione deve superare diverse tappe rischiose prima dell’attecchimento all’utero e fino al parto. Per ben comprendere questo meccanismo e studiare i gusti provvedimenti da adottare si deve conoscere cosa succede all’ovocita dopo che è stato fecondato. Nei primissimi giorni dopo il concepimento si stima che oltre l’85% degli ovociti fecondati si sviluppa verso la fase di morula (gg 6). A cavallo tra questa fase e la successiva (blastociste) l’embrione produce una molecola chiamata interferon-tau (INF-τ) la cui produzione aumenta con l’età e che è proporzionale alla taglia della blastociste. Il suo ruolo è quello di avvisare la madre dell’esistenza di una gravidanza in modo da bloccare la produzione di prostaglandine (PGF2α) da parte dell’utero, evitando la lisi del corpo luteo che produce il prezioso ormone che permette il proseguimento della gravidanza e che si chiama progesterone. Già una bassa produzione di INF-τ al 4° giorno e di progesterone al 6° giorno fa aumentare il rischio d’interruzione della gravidanza.
Per aumentare la probabilità di gravidanza ci sono importanti aspetti nutrizionali, o meglio metabolici, da considerare dal momento che condizionano la qualità dell’ovocita del follicolo dominante, ossia quello che verrà fecondato, e l’ambiente uterino, in particolare le sostanze nutritive in esso contenute che condizionano la crescita dell’embrione fino al suo attecchimento alla parete uterina che solitamente avviene al 35° giorno d’età.
Quando ci si dà l’obiettivo, condiviso con convinzione tra allevatore, nutrizionista e veterinario, di puntare ad avere follicoli dominanti di grandi dimensioni che contengano un ovocita di qualità, non ci si deve mai dimenticare che il tempo che trascorre tra lo stadio primordiale di un follicolo (infanzia) e la fase ovulatoria (maturità) è di circa 4 mesi e che stress metabolici e carenze di specifici nutrienti in questo periodo possono compromettere irreversibilmente la qualità degli ovociti e delle cellule follicolari che dopo l’ovulazione daranno luogo alla produzione del corpo luteo (dal quale viene secreto il progesterone). Il bilancio energetico e proteico negativo, tipico delle ultime due settimane di gravidanza e delle primissime settimane di lattazione, comporta spesso un aumento nel sangue di BHB (corpo chetonico), NEFA (acidi grassi non esterificati provenienti dal tessuto adiposo ma anche dall’alimentazione) e urea derivante dal catabolismo degli acidi grassi che sono in grado di alterare la qualità sia del follicolo che dell’ovocita in esso contenuto.
Stesso si può dire per la qualità del “latte uterino” che può essere alterata dalla presenza d’infezioni, da carenze nutritive generiche o di specifici amminoacidi, come la metionina, o da un pH alterato per un’eccessiva concentrazione di azoto non proteico.
Pertanto, quando la fertilità non va e si vuole veramente risolvere il problema senza cercare scorciatoie, si deve assumere un atteggiamento analitico condiviso da chi ha la responsabilità della fertilità delle bovine in allevamento, ossia l’allevatore, dal veterinario e dal nutrizionista. Nessuno di loro è “innocente” a prescindere e l’atteggiamento “abbiamo fatto sempre così” è forse la vera causa della SdSF. Avere come priorità la migliore qualità possibile dell’ovocita, del follicolo dominante, del corpo luteo e dell’ambiente uterino e un impeccabile metodo di rilevazione del calore e del giusto momento di fecondare sono i pre-requisiti per ottenere la migliore fertilità possibile in allevamento.
Fonte http://www.ruminantia.it/quando-la-fertilita-non-va/
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