La procreazione medicalmente assistita comprende tutte le procedure chirurgiche, ormonali e farmacologiche che servono per ottenere una gravidanza. Molto spesso si usano i termini pma e fivet per descrivere la stessa tecnica, anche se impropriamente. Chi ricorre a una fecondazione in vitro conosce a menadito le fasi della procreazione assistita.
Sa che per ottenere la fecondazione dell’ovocita al di fuori del corpo di una donna, deve formarsi l’embrione e che, successivamente, questo deve essere trasferito di nuovo nell’utero di lei.
Chi invece non ha passato tutto ciò e si avvicina per la prima volta a una fecondazione in vitro dovrebbe chiedere informazioni specifiche al proprio medico o al centro di fertilità da cui è seguito e visitare i siti autorevoli che spiegano in maniera scientifica le fasi.
Semplificando, il percorso avviene attraverso la stimolazione della funzione ovarica, con protocolli che variano secondo le caratteristiche e condizioni della donna, che possono essere lunghi o corti ed hanno lo scopo di far produrre un numero elevato e di buona qualità di ovociti; segue poi il prelievo degli stessi detto pick up, che può avvenire in anestesia locale o generale, la raccolta del liquido seminale, l’inseminazione in vitro, ovvero l’incontro tra ovocita e spermatozoo, la coltivazione degli embrioni e infine il trasferimento degli stessi, il transfer, appunto.
Di solito si usa prendere del progesterone (ormone prodotto dall’organismo femminile in modo naturale nelle diverse fasi del ciclo, la cui funzione è di creare nell’organismo le condizioni ideali alla gravidanza) somministrato in via farmacologica per facilitare l’annidamento dell’uovo fecondato.
Ogni donna reagisce in maniera diversa alla stimolazione, come ogni donna reagisce in maniera diversa al prelievo degli ovociti. Ma c’è una cosa che ci accomuna tutte, o meglio che accomuna tutte le donne che hanno fatto un trasferimento di embrioni. Ed è la sensazione più bella del mondo. La speranza si mescola al desiderio di protezione per quella vita appena iniziata. Il timore e l’eccitazione ballano il ritmo di un cuore che batte per due. E si vive, anche se a volte il sogno dura solo fino alle beta hcg (analisi del sangue che si fanno al dodicesimo giorno dal trasferimento) l’emozione più grande della vita: essere madre.
Malgrado siano giorni assurdi, quelli che passano tra il transfer e le analisi, giorni fatti di ore pesanti, in cui il tempo sembra rincorrere se stesso e contemporaneamente, sembra sospendersi, in cui si alterna il riposo all’angoscia, la speranza ai pensieri che affollano la testa, e si avvertono sensazioni sconosciute e doloretti, di fatto, sono i giorni della cova. Giorni in cui il corpo si prepara ad accogliere, a farsi casa, a farsi abbraccio.
Nonostante la paura che quella vita ci lasci come è venuta e ci si ritrovi
a pregare che quell’attimo di eterno si attacchi a noi per sempre, in quei
giorni, si è madri. E questo, per una diversamente fertile, è la sensazione più
bella,prima di conoscere suo figlio.
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