lunedì 6 aprile 2015

Sono una madre surrogata, perché dovrei sentirmi in colpa?

Sono una madre surrogata, perché dovrei sentirmi in colpa?

Ecco la storia di una “macchina perfetta per procreare”, perché essere madre non significa partorire il proprio figlio

Ci sono tanti modi di essere madre, tutti con uguale dignità. Donne
che si sentono madri fin da bambine e donne che invece non hanno
intenzione di diventarlo. Uomini che si trovano a fare le madri, madri
di figli naturali e di figli adottivi. Oppure donne che decidono di
partorire bambini per altri, come Natasha, la protagonista dell’estratto
che vi presentiamo da 
Madri, comunque
(Fandango, 188 pagine, 15 euro), scritto dalla giornalista Serena
Marchi. Perché essere madre può significare anche non dare luce al
proprio figlio.


Mia sorella è sterile. È nata senza utero e ovaie. Mia madre ci racconta che quando l’hanno scoperto, in casa è stata una tragedia: non poter avere figli e quindi non essere donna a tutti gli effetti, da noi, nel nostro piccolo paesino di campagna qui in Ucraina, era una disgrazia.

Perché nessun uomo era disposto a sposare una ragazza che non gli potesse dare dei figli. E non credo che oggi le cose siano cambiate più di tanto. Mi chiamo Natasha, ho ventinove anni, sono sposata da undici e sono mamma di un bambino di nove. Sono l’ultima di cinque figli, quattro femmine e un maschio. Mia sorella Olga, la primogenita, ha vissuto tutta la vita con l’onta
di non essere completa, di non poter avere un futuro in una famiglia
tutta sua e di dover vivere per sempre con mamma e papà. Una zitella.


Io sono cresciuta tra i suoi pianti, le sue crisi isteriche, le sue
depressioni, il suo chiudersi in casa e schivare il più possibile le
persone. Ho visto con i miei occhi il peso degli sguardi dei vicini, quanto è stata esclusa ed emarginata dalle amiche, le battute dei compagni di scuola, le cattiverie delle donne del paese: “Che donna è mai quella che non può aver figli?”.


Al contrario suo, invece, io sono una macchina perfetta per procreare.
Non lo dico io. Me lo ripetono i medici della clinica Biotexcom di
Kiev, una delle più famose strutture in cui è possibile praticare la maternità surrogata. In Ucraina, come in alcuni paesi degli Stati Uniti, in Russia, Georgia, India, Gran Bretagna e Nuova Zelanda, affittare il proprio utero è permesso.


Io sono una portatrice, una madre surrogata: faccio diventare madri le donne che non possono terminare la gravidanza. Presto il mio utero alle coppie che si rivolgono alla Biotexcom per avere un figlio. Per essere una portatrice una donna deve avere dai venti ai trentacinque anni, avere almeno un figlio suo e rispettare i requisiti di salute
sia fisica sia mentale richiesti dalla clinica. E per ricorrere
all’utero in affitto, per la legge ucraina, la coppia deve essere eterosessuale, sposata e il nascituro deve avere il dna di almeno uno dei due componenti.


So molto bene cosa significhi non poter diventare madri.
Mia sorella e il suo destino per me sono un esempio lampante. Il fatto
di non avere un utero non ha annullato per niente la sua voglia di avere
un figlio e non le ha cancellato l’istinto materno.


Ma so anche molto bene cosa significhi essere madre. Mio figlio è la gioia
più grande della mia vita. Vederlo crescere giorno dopo giorno,
insegnargli cosa è giusto e cosa no, portarlo a scuola, sedersi accanto a
lui per fare i compiti, curarlo quando sta male, coccolarlo quando
piange, dormire con lui nel lettone. Niente di più bello. Quindi la mia
scelta di aiutare le coppie a diventare genitori secondo me è un dono di Dio.
E non un peccato imperdonabile, come lo etichettate voi in Italia.
Aiutarle a mettere al mondo una creatura, la loro creatura, stringerla
tra le braccia magari dopo strade difficili e tortuose è per me ogni
volta una grande soddisfazione.


In questo momento sto aspettando i gemelli di una coppia tedesca che nasceranno tra sei mesi. È la quarta volta che ospito nel mio ventre i figli di chi non può partorirne. Oltre a quello di mio figlio, nove anni fa, ho avuto altri tre parti:
due singoli e uno gemellare. Con questo fanno quattro. E io mi ricordo
solo quello in cui è nato il mio bambino: un vero e proprio salto nel
buio, in cui non sapevo minimamente cosa fare né come avrebbe reagito il
mio corpo. Dopo dodici ore di travaglio, molta ansia e preoccupazione,
avere in braccio mio figlio è stata una delle emozioni più forti che
abbia mai provato. Con gli altri parti è tutta un’altra cosa: so già cosa fare, so come reagisce il mio corpo. Ed è molto più facile perché so cosa accade.


Durante le gravidanze che faccio per gli altri genitori non penso mai: “Questo figlio è mio, me lo tengo”, perché so dal primo momento che non lo crescerò, che lo partorirò e poi lo darò ai suoi genitori. So che porto avanti la gravidanza per altri.
Anche adesso, quando sento i gemelli muoversi, quando ho le nausee e mi
duole la schiena, non si crea quel legame materno che ho avuto fino da
subito con mio figlio. Certo sto attenta a cosa mangio e mi tengo curata
ma mi dico: “Ci sono due persone che si prenderanno cura di lui, è per loro che lo faccio”.


Lo voglio ribadire: io ho un solo figlio, la più
grande gioia della mia vita. Gli altri che ho messo al mondo sono i
figli di qualcun altro. Non mi ricordo né il giorno in cui sono nati né
se erano maschi o femmine, nemmeno quanto pesavano. Non mi interessava e non mi interessa. Questi bambini non hanno niente di me, non hanno il mio dna, non verranno educati da me. Io li ho solo partoriti, ho aiutato chi naturalmente non lo poteva fare. E aver visto gli occhi pieni di gioia delle mamme e dei papà ai quali li ho consegnati è una delle cose che mi rende felice e serena. Per me mio figlio è così importante: perché non aiutare gli altri ad averne? Cosa c’è di male?


Lo sapete tutti che vengo pagata, per affittare il mio utero. Diecimila euro a parto, quindicimila se sono gemelli (lo stipendio medio mensile in Ucraina è 150 euro).
Non c’è niente di male nel farlo. Questi soldi servono per comprare una
casa più grande in cui possa andare con la mia famiglia, con mio marito
e mio figlio, gli unici amori della mia vita. Il mio corpo è fatto per procreare,
perché non usarlo per aiutare la mia famiglia a vivere in condizioni
migliori e al contempo rendere felice una coppia di genitori?


Sto pensando di diventare mamma ancora,
di fare un altro figlio tutto mio, magari una bambina questa volta.
Forse l’anno prossimo, quando avrò partorito questi che abitano ora nel
mio grembo. Perché quando ho avuto mio figlio, nove anni fa, ero molto
giovane e non mi sono resa conto di cosa significhi essere genitore. Ora
sono molto più matura e sono convinta che potrei godermi la maternità in maniera più consapevole.


Per essere dei bravi genitori devi voler amare
un figlio. Per essere madre serve solo voler amare un bambino e avere
tanta pazienza. Il figlio è di chi lo cresce, di chi lo desidera e di
chi gli vuole bene. Come si può ridurre il legame tra genitori e figli all’aspetto biologico o alla gestazione? L’amore non c’entra nulla con la capacità di riprodursi.


Per me l’essere madre ha due significati. Innanzitutto ho il dovere di amare, di educare e di custodire il mio bambino. Poi ho la grossa responsabilità
dei bambini che faccio nascere dal mio ventre perché so che da un’altra
parte, nel mondo, aspettano questa immensa gioia. No, non mantengo alcun tipo di contatto
con la famiglia per la quale partorisco. Sia la clinica sia gli
psicologi lo sconsigliano. Che senso avrebbe? Cosa mi darebbe in più?


E poi io mi porto dentro la frase che mi ha detto la prima donna per la quale ho partorito il figlio.
Ero ancora in ospedale, il bambino aveva un giorno. Quando l’ha visto è
scoppiata a piangere, mi ha abbracciata e mi ha detto: “Grazie
Natasha, tu hai la bacchetta magica: hai realizzato il mio sogno. Ora so
che la fata turchina esiste sul serio e per me sei tu
”.


La fata turchina. Non lo trovate un complimento bellissimo?

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