Risponde l'esperto:
Madri surrogate
sì o no? Il dibattito è crescente per il dilagare della pratica nei Paesi a
basso reddito, in cui è più facile trovare donne disponibili per questo
progetto procreativo. Si parla anche di “utero in affitto”, espressione che
indica l’uso strumentale del corpo della donna, come se fosse solo
un’incubatrice.
Dal punto di vista medico e legale, nella maternità “surrogata”, una donna accetta, spesso dietro compenso, di portare avanti una gravidanza per un’altra coppia: il bambino viene consegnato al parto e la madre surrogata non lo vedrà più. L’obiettivo della coppia “committente” è avere un figlio biologicamente proprio: con il DNA di entrambi i coniugi.
E’ quindi una modalità diversa dall’ovodonazione, in cui una donna dona i propri ovociti: questi vengono fecondati in vitro con gli spermatozoi del coniuge e trasferiti nella donna che è già in menopausa, precoce o meno, per consentirle di portare avanti la gravidanza nel proprio corpo, con un figlio che biologicamente è figlio del marito e della donatrice.
Nella gravidanza surrogata, invece, gli ovociti della donna che vuole il figlio e gli spermatozoi del marito vengono fecondati in vitro con procreazione medico assistita (PMA), secondo le normali procedure. L’embrione, figlio geneticamente di entrambi, viene subito trasferito nella donna che presta il proprio utero/corpo e accetta di fare da incubatrice biologica ad un bimbo che altrimenti non potrebbe nascere.
Le indicazioni a questa opzione procreativa sono:
1. la mancanza genetica dell’utero (sindrome di Rokitansky): la donna ha le ovaie e un normale sviluppo puberale, ma non ha utero e vagina (o solo parziali);
2. aborti ripetuti, per ragioni immunologiche o di malformazioni uterine;
3. ripetuti fallimenti di pregressa procreazione medico assistita;
4. condizioni mediche che controindichino la gravidanza nella donna che cerca il figlio.
La PMA ha sollevato nuovi problemi dal punto di vista etico, medico-legale e di legislazione internazionale. Nel caso della madre surrogata, si tratta di un contratto che commercializza la capacità riproduttiva (“bio-power”, il potere biologico) per perseguire il sogno individuale di un figlio proprio. Il contratto ha tre parti: la madre surrogata (o la coppia, se la donna è sposata), la coppia committente e la clinica che attua la PMA.
Il successo è di circa il 60% di gravidanze biologiche (test di gravidanza positivo), di cui il 90% arriva al pieno successo: un bimbo in braccio. Solo il 10% delle donne che si dichiarano disponibili ad “affittare” il proprio utero supera la selezione: devono essere giovani, in ottima salute, avere stili di vita sani, essere equilibrate e determinate nel dare questa disponibilità.
La motivazione a diventare madri surrogate va dal desiderio di dare la gioia di
un figlio a un’altra donna (il caso più frequente per chi ha figli, ha una
famiglia e lo fa gratuitamente) al bisogno di denaro. Dal punto di vista etico
due sono le posizioni. Da un lato i contrari, per ragioni morali e perché
vedono questa opportunità come un bieco sfruttamento della capacità
riproduttiva della donna, specie nei Paesi poveri. Dall’altro chi la ritiene
corretta, se le parti in causa sono tutelate da leggi internazionali condivise
per una maternità surrogata equa (Fair Trade Surrogacy). Per i fautori della
legge vale la regola generale della teoria sociale dei contratti, che vede
l’individuo come “uomo economico” con motivazioni morali e/o politiche per
soddisfare desideri individuali. Dal punto di vista medico e legale, nella maternità “surrogata”, una donna accetta, spesso dietro compenso, di portare avanti una gravidanza per un’altra coppia: il bambino viene consegnato al parto e la madre surrogata non lo vedrà più. L’obiettivo della coppia “committente” è avere un figlio biologicamente proprio: con il DNA di entrambi i coniugi.
E’ quindi una modalità diversa dall’ovodonazione, in cui una donna dona i propri ovociti: questi vengono fecondati in vitro con gli spermatozoi del coniuge e trasferiti nella donna che è già in menopausa, precoce o meno, per consentirle di portare avanti la gravidanza nel proprio corpo, con un figlio che biologicamente è figlio del marito e della donatrice.
Nella gravidanza surrogata, invece, gli ovociti della donna che vuole il figlio e gli spermatozoi del marito vengono fecondati in vitro con procreazione medico assistita (PMA), secondo le normali procedure. L’embrione, figlio geneticamente di entrambi, viene subito trasferito nella donna che presta il proprio utero/corpo e accetta di fare da incubatrice biologica ad un bimbo che altrimenti non potrebbe nascere.
Le indicazioni a questa opzione procreativa sono:
1. la mancanza genetica dell’utero (sindrome di Rokitansky): la donna ha le ovaie e un normale sviluppo puberale, ma non ha utero e vagina (o solo parziali);
2. aborti ripetuti, per ragioni immunologiche o di malformazioni uterine;
3. ripetuti fallimenti di pregressa procreazione medico assistita;
4. condizioni mediche che controindichino la gravidanza nella donna che cerca il figlio.
La PMA ha sollevato nuovi problemi dal punto di vista etico, medico-legale e di legislazione internazionale. Nel caso della madre surrogata, si tratta di un contratto che commercializza la capacità riproduttiva (“bio-power”, il potere biologico) per perseguire il sogno individuale di un figlio proprio. Il contratto ha tre parti: la madre surrogata (o la coppia, se la donna è sposata), la coppia committente e la clinica che attua la PMA.
Il successo è di circa il 60% di gravidanze biologiche (test di gravidanza positivo), di cui il 90% arriva al pieno successo: un bimbo in braccio. Solo il 10% delle donne che si dichiarano disponibili ad “affittare” il proprio utero supera la selezione: devono essere giovani, in ottima salute, avere stili di vita sani, essere equilibrate e determinate nel dare questa disponibilità.
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