Strasburgo
dice sì all’utero in affitto. La Corte europea ha condannato l’Italia a
pagare ventimila euro ad una coppia molisana per aver violato il loro
diritto a formarsi una famiglia. Parlano i due: «Abbiamo violato la
legge per amore. Rivolevamo nostro figlio, non i soldi»
la Repubblica, mercoledì 28 gennaio 2015
Non
importa che tra figlio e genitori non vi fosse alcun legame genetico,
che il piccolo fosse stato partorito da un’altra donna grazie all’utero
in affitto. Quel bambino avrebbe dovuto restare con chi lo stava
crescendo. Questo dice la sentenza della Corte di Strasburgo che ha
condannato l’Italia
a pagare ventimila euro ad una coppia molisana per aver violato il suo
diritto a formarsi una famiglia. Per aver allontanato senza alcun
bisogno il piccolo, nato da utero in affitto e che senza affinità
genetiche marito e moglie lo allevavano. Per alcuni questa sentenza,
approvata per 5 voti a due, contrario il vicepresidente, l’italiano
Guido Raimondi, sarebbe un’apertura alla maternità surrogata, che vede
ogni anno più di cento coppie partire dall’Italia verso i paesi dell’est dove è legale. Secondo la Corte l’Italia
ha violato la Carta dei diritti dell’uomo visto che «l’allontanamento
di un minore dal contesto familiare non si giustifica se non con un
rischio immediato per il minore». Condizioni assenti, secondo i giudici.
La coppia non rivedrà però mai più il bambino. La Corte ha infatti
deciso che è meglio per lui restare nella famiglia a cui è stato
affidato nel 2013 perché «ha certamente sviluppato dei legami
affettivi». Il ricorso contro l’Italia
era stato presentato dall’avvocato bolognese Giorgio Muccio, a nome
della coppia che era andata in Russia, dove è legale la pratica della
maternità sostitutiva. Il bambino, nato nel 2011, era stato riconosciuto
come figlio dai due aspiranti genitori e iscritto all’anagrafe di
Mosca. Ma i coniugi si erano visti poi rifiutare l’iscrizione
all’anagrafe italiana, anche perché, secondo le autorità, il certificato
di nascita conteneva dei dati falsi.*****
«Che te ne fai dei soldi quando ti tolgono un figlio, quando ti strappano il bambino che hai cresciuto giorno e notte per otto mesi? Niente. Il risarcimento che vogliono darci non ci riporta Filippo, i suoi sorrisi, i suoi abbracci. Anzi, da oggi abbiamo la certezza che non lo rivedremo mai più».
Parla di lei Maria e di suo marito Fabio, la sentenza della corte di Strasburgo. Il verdetto che ha condannato l’Italia a pagare 20mila euro di danni morali per aver allontanato da loro il bambino quando si è scoperto che era stato partorito grazie all’utero in affitto, legale in Russia ma vietato nel nostro paese, ma soprattutto che non aveva nulla di genetico della coppia.
Hanno condannato l’Italia.
«Sì, dicono che è stato leso il diritto alla famiglia, ma poco importa, la realtà è che non rivedremo più il piccolo, i giudici hanno anche deciso che nel suo interesse è bene che resti con la famiglia a cui l’hanno affidato solo un anno fa. Dopo averlo tenuto per mesi in un orfanatrofio dal quel pomeriggio in cui vennero a portarcelo via da casa».
Non era figlio vostro.
«Geneticamente no, ma noi non lo sapevamo. Hanno sbagliato con le provette in Russia, noi eravamo in buona fede».
Ma l’utero in affitto è vietato.
«Lo so, e anche l’eterologa lo era fino a qualche mese fa, ma lei ha presente la disperazione di chi tenta di diventare genitore da 15 anni? In Italia, è vero, non si può, ma in Internet dicevano che in Russia era tutto legale e io ho chiamato. Mi hanno risposto che andava tutto bene, gli ho dato 50mila euro per la donatrice di ovuli, per chi avrebbe cresciuto in grembo il bambino».
C’è chi vi accusa di aver comprato un bebé «No, avrebbe dovuto essere nostro figlio, come un’eterologa, avrebbe dovuto avere il patrimonio genetico di mio marito. Io sono partita con i suoi gameti, non so cosa sia accaduto, ma questa è una storia lunga e complicata di dolore e sofferenze».
Una lunga storia d’amore?
«Io ho 46 anni mio marito 54, stiamo insieme da più di venti e per anni abbiamo cercato di avere figli. Niente fa fare, gli esami erano buoni ma io restavo incinta e poi li perdevo. Così ho cominciato a fare fecondazioni assistite. Niente, ancora illusioni, fallimenti, lacrime».
Poi ha provato l’eterologa.
«Sì, in Italia era vietata ma come tante ho deciso di rischiare, sono andata in Spagna, ho fatto cinque tentativi, 10mila euro l’uno. Tutto inutile, li perdevo nelle prime settimane».
A questo punto?
«Sono medico, ho pensato che non solo erano i miei ovuli a non andare bene ma che era proprio il mio corpo ad essere in qualche modo sbagliato ma non volevo arrendermi. Allora ho studiato in rete, ho pensato all’utero in affitto, ho visto che in Russia era legale, che si poteva trovare una donatrice e un’altra signora che avrebbe ospitato l’embrione nella sua pancia. E ci siamo organizzati».
Con quali soldi?
«I risparmi di una vita, di anni senza vacanze, cinema o pizza sognando quel bambino».
E quando è nato?
«Eravamo a Mosca, siamo andati a comunicarlo in ambasciata, ci hanno detto che era tutto regolare e siamo tornati in Italia. Mesi dopo il tribunale ha chiesto l’esame del Dna e sono venuti a bussare alla nostra porta per portarcelo via. Parlavano di false attestazioni di identità, ipotizzavano compravendita di bambini. E noi ci siamo sentiti morire».
Nulla di vero?
«No, se non fossimo stati in buona fede mica avremmo dato al tribunale gli esami del dna e dello sperma, il contratto per la maternità surrogata».
E ora?
«Ci aspetta un processo penale in Italia a marzo per false attestazioni, c’è anche l’ipotesi di compravendita di minore.... Ma appena mi guarderanno capiranno che non è proprio possibile».
Cosa vedranno?
«La mia pancia, sono incinta ormai di quattro mesi. È figlio nostro, fatto senza fecondazione assistita o eterologa».
Incinta dopo 20 anni senza aiuti?
«Lo chiami miracolo, pensi quello che vuole... Questa è la nostra realtà, il nostro futuro, ma non toglie il dolore per la perdita di Filippo. Lui ci manca tutti i giorni. Come fanno a dire che a otto mesi non hanno memoria, ma se già balbettava papà piangendo quando ce lo hanno portato via».Caterina Pasolini